Gli Autechre, ovvero i maestri dell’imprevedibilità . Appena dodici giorni dopo la pubblicazione di “SIGN”, il duo britannico spiazza i fan con un nuovo, inatteso lavoro intitolato “PLUS”. Un oggetto misterioso, comparso sulle piattaforme di musica in streaming senza alcun preavviso, che presenta alcune analogie con il suo freschissimo predecessore.

Per notare la prima basta dare un’occhiata alle copertine degli album in questione. Sono letteralmente identiche, a esclusione dei colori scelti per lo sfondo e per la strana forma circolare realizzata dai grafici del The Designers Republic. Tali differenze cromatiche sembrano in qualche modo influire sul contenuto di due dischi che, c’è da giurarci, sono nati per completarsi a vicenda.

Se “SIGN” predilige tonalità  ““ e, di conseguenza, sonorità  ““ calde e oscure, “PLUS” preferisce indagare la sfera più grigia e fredda dell’IDM, spingendo l’ascoltatore in quella che a tutti gli effetti è un’avventura nei meandri più astratti e alieni dell’elettronica sperimentale. I tratti di umanità  emersi nella precedente opera, disseminati tra brandelli melodici e suggestioni ambient, qui resistono quasi esclusivamente in una manciata di brani che vanno dal ruvido (“ii.pre esc”, “esle 0”) al celestiale (“lux 106 mod”).

Per quanto riguarda il resto, gli Autechre di “PLUS” tornano a mostrarci in tutto il suo splendore l’efferata natura di un sound sì gelido e claustrofobico, ma anche inebriante nella sua affascinante indecifrabilità . Un ermetismo che posa le proprie basi sull’impressionante intelaiatura ritmica ideata da Sean Booth e Rob Brown, nuovamente in primo piano dopo l’apparente quiete che invece aveva caratterizzato “SIGN”.

I battiti tribali di “DekDre Scap B”, il caos digitale di “7FM ic” e gli scheletrici beat di “marhide” potrebbero benissimo essere frutto di un’intelligenza artificiale programmata per imitare la musica dance; un fiume di pulsazioni che, pur non avendo praticamente nulla di regolare, contribuiscono a dar forma a un lavoro robusto e coeso. Sul podio le lunghissime “ecol4”, “X4” e “TM1 open”: tre distinti flussi di note che confluiscono in un unico labirinto di suoni sintetici, glitchati e irreali. Il percorso è faticoso ma incredibilmente appagante.