A distanza di un decennio da quel “King Night” che venne accolto in maniera molto positiva da critici e ascoltatori, tornano a farsi vivi gli statunitensi Salem. I pionieri del witch house, tornati a essere un duo dopo la dolorosa separazione dalla cantante Heather Marlatt, pubblicano la loro seconda fatica nel pieno di un terrificante periodo storico dove di certo è rimasta solo l’incertezza.

Un mondo oscuro che diventa terreno fertile per gli undici brani di “Fires In Heaven”, un album che unisce la durezza del southern hip hop alla morbidezza dello shoegaze per dar vita a una forma di rock elettronico di difficile definizione. Le rime tipiche del rap, il più delle volte sorrette dalle ritmiche moderne della trap (“Red River”, “Crisis”), si alternano a melodie tanto “tossiche” quanto celestiali.

Tra le ombre fitte della title track, dell’elettrica “Old Gods” e di una “Capulets” che osa campionare Sergej Prokofiev, Jack Donoghue e John Holland ci mostrano le luci opache ma vibranti di “Sears Tower”, “Starfall”, “DieWithMe” e “Not Much Of A Life”, dalle cui note emana uno strano tipo di calore che ““ perchè no? ““ a qualcuno potrebbe persino dare un po’ di conforto.

In costante bilico tra il bene e il male, i redivivi Salem ci regalano una brevissima esperienza musicale che offre proprio quanto promesso dal titolo: mezz’oretta scarsa di piccoli ma intensi “incendi in paradiso”.

Credit Foto: Annie Eversz