Quando Bowie realizzò “Station to Station”, arrivava dal grande successo di “Young Americans” e del singolo “Fame”, ed era riuscito anche ad imporsi nel mercato americano scalando le classifiche.

Nel 1975 si trasferì per alcuni mesi a Los Angeles, ospite di amici come il bassista Glenn Hughes e del suo nuovo manager Michael Lippman.

Michael Lippman, aveva sostituito il precedente manager Tony Defries, fatto fuori perchè accusato di essersi appropriato di somme spettanti all’artista, e lo farà  per tanti anni, ma anche Lippman non durerà  molto, considerato da Bowie un incapace perchè colpevole di non essere riuscito a convincere Nicolas Roeg, regista di   “L’uomo che cadde sulla Terra”, a scegliere per il film la colonna sonora che lui aveva composto insieme a Paul Buckmaster.

Bowie nel ’76 verrà  chiamato in tribunale da Lippman, dove affronterà  e perderà  una causa da due milioni di dollari, cifra abbastanza importante per l’epoca.

In quegli anni non era però quello economico il problema principale di Bowie, era ormai comunque una star internazionale ricchissima, piuttosto era la sua situazione fisica e psicologica a creare qualche preoccupazione. Le sue giornate erano caratterizzate da uno stile di vita che lo portava sempre più vicino alla temuta pazzia, che la sua storia familiare rendeva così reale, magari in un’ altra occasione approfondiremo il passato e la storia della sua famiglia di origine, la madre le zie e soprattutto il suo amato fratello Terry.

Bowie quando giunse a Los Angeles era sull’orlo dell’abisso, magrissimo si alimentava quasi esclusivamente di latte e peperoncino ed era soprattutto un cocainomane.

La cocaina negli anni 70 era diventata la droga delle rockstar: non avendo la grande diffusione di oggi era in un certo qual modo elitaria, come era accaduto negli anni Venti quando circolava copiosamente negli ambienti hollywoodiani,   costosissima e difficile da reperire. Non era diffusa tra i giovani che preferivano l’erba o le droghe psichedeliche, tra l’altro all’epoca non ancora illegali e quindi facilmente reperibili, ma in certi ambienti di persone molto facoltose, la cocaina aveva iniziato ad avere un ottimo mercato. Sicuramente Bowie accolse la cocaina a braccia aperte, colmava e nascondeva la sua congenita insicurezza e, allo stesso tempo, era lo strumento ideale per assecondare la sua naturale iperattività .

Cocaina + latte + peperoncino = un David Bowie con un fisico magrissimo, sull’orlo dell’anoressia e vicino al collasso fisico.

E mentalmente?

Bowie mentalmente stava anche peggio, l’uso continuo della droga e il fatto di non dormire  praticamente mai gli provocava paranoia, ipersensibilità , allucinazioni, nel suo caso alimentati dalla sua fissazione per l’occultismo e i testi esoterici.

Si alimentava con letture di testi spirituali di ogni genere, fino ad arrivare alle teorie più assurde e incredibili, aumentando ancora di più i comportamenti paranoici che sfociavano in rituali di difesa da fantomatici attacchi magici, che prevedevano candele nere continuamente accese, pentagrammi disegnati sulle pareti, esorcismi di piscine (tutta colpa di Peter Sellers) e un’ assoluta attenzione e conservazione dei propri fluidi corporei, era convinto che alcune streghe volessero il suo sperma per concepire il figlio del demonio.

In questa situazione già  di per se assurda si inseriva anche il suo interesse per le teorie che sostenevano i collegamenti tra il nazismo e l’occulto, per la storia della ricerca del Santo Graal da parte del Terzo Reich e i fantomatici poteri magici di Hitler, che costeranno a Bowie le infondate accuse di essere filonazista, basti ricordare le polemiche per il suo saluto con il braccio teso, rivolto ai fan nel 1976, presso la Victoria Station di Londra, episodio poi spiegato e ridimensionato dall’artista stesso.

In questo contesto nasceva il personaggio del Thin White Duke, che viene citato nella title track di apertura dell’album che stiamo celebrando.   Bowie canta “The return of the thin white duke throwing darts in lover’s eyes..” e con teatralità  presenta quello che lui stesso definirà  un uomo pericoloso ariano e fascista, volendo con questo imprimere nel personaggio quel senso di distacco e gelida lontananza dal mondo e dagli altri che gli apparteneva in quel periodo.

Bowie ha più volte raccontato che non ricorda nulla riguardo la realizzazione e la registrazione dell’album eppure, se andiamo ad ascoltare in sequenza temporale l’album precedente, ” Young Americans”, e poi “Station to Station”, e vi invito a farlo, si è portati a fare altre considerazioni.

“Station to Station” appare pieno di significato e sembra essere concepito in modo lucido, una lucidità  istantanea e amplificata dalla sua situazione, ma capace di esprimere un concetto preciso.

Un concetto che prevedeva un messaggio di un ritorno al vecchio continente, che avveniva attraverso il sound, con i primi accenni al krautrock e alla sperimentazione sonora che ameremo in “Low”, ma anche attraverso le simbologie, prima tra tutte quella teatrale del Thin White Duke, nel quale fa entrare in scena un personaggio tipicamente europeo, Bowie si proietta verso il futuro e lo fa a suo modo, con la sua lucida per quanto alterata visione del momento.

“Station to Station” è tra i suoi grandi capolavori, la title track che apre l’album musicalmente  è quasi una visione del suo futuro, con cambiamenti all’interno del brano e trasformazioni che la rendono la composizione, a mio parere, tra le più affascinanti di Bowie, in un crescendo irresistibile.

Il testo per lungo tempo fu oggetto di varie interpretazioni, vista la difficolta nel comprenderlo,   ci penserà  lo stesso Bowie a spiegarne il significato, facendoci sapere che il brano conteneva vari riferimenti alla cabala e ai testi esoterici e magici di cui si alimentava in quel periodo.

“Golden Years” sarà  un singolo di grande successo negli Stati Uniti e ovviamente anche in Inghilterra, come era avvenuto con “Fame”, di cui mantiene una base funky ed è in fondo un pezzo di collegamento con il precedente album. Il testo sembra essere rivolto a una persona amata, ma sul brano aleggia un senso di inquietudine che vede la stessa figura di Bowie protagonista, come quando canta “.. Come get up, my baby Run for the shadows, run for the shadows Run for the shadows in these golden years…”, forse è lui l’ombra, forse ha ragione Mary Angela Barnett, sua prima moglie, la canzone è dedicata a lei.

“Word on a Wing” è una grande perla, la melodia e la sovrapposizione vocale da fascino e rende reale una grande preghiera, che in fondo è una richiesta di aiuto, la ricerca di un’ancora di salvataggio.

“TVC 15” e “Stay” hanno in qualche modo a che fare con l’inteso uso di droga che caratterizzava le registrazione dell’album e della vita dei musicisti in quel periodo, la prima, che parla di una ragazza che viene risucchiata nella tivù sembra sia stata ispirata da un pomeriggio allucinato passato con   Iggy Pop, convinto che la sua ragazza fosse sparita nel televisore, la seconda nata in studio sotto gli effetti della cocaina è un gran pezzo colorato di funky.

L’album si chiude con la bella cover “Wild Is the Wind”. Bowie sarebbe presto ritornato in Europa per iniziare la sua collaborazione con Brian Eno e iniziare la trilogia berlinese, ma questa è un’altra storia.

Data di pubblicazione: 23 gennaio 1976
Tracce: 6
Lunghezza: 38:08
Etichetta: RCA
Produttore: Harry Maslin, David Bowie

Tracklist:
1. Station to Station
2. Golden Years
3. Word on a Wing
4. TVC 15
5. Stay
6. Wild Is the Wind