L’8 gennaio 2016, oltre ad essere il giorno del suo 69esimo compleanno, ha segnato per David Bowie l’uscita del suo nuovo album â’… (“Blackstar”), il ventiseiesimo della sua carriera.
Esattamente tre anni dopo l’uscita di “Where Are We Now?”, il singolo che aveva decretato il ritorno alle scene dopo un lungo periodo di silenzio, anticipando l’album “The Next Day”.

In molti allora si chiesero se quello fosse stato l’ultimo sforzo dell’artista, un lascito generazionale, che ripercorreva per diversi tratti quelle che sono state le pecularietà  della sua lunga produzione artistica. Ma riascoltandolo ora, prima di ascoltare per le prime volte l’ultimo lavoro, altro non sembra che un anticipazione e una preparazione a â’… e forse a una nuova fase della sua carriera.
E non chiamatela reinvenzione: durante la sua carriera Bowie si è più di una volta sentito apostrofato con la parola camaleontico, e ai giornalisti e critici che così lo appellavano ha ribadito e sottolineato quanto questo aggettivo non si addicesse con la sua figura e con il progressivo cambiamento delle tematiche di volta in volta affrontate.


The chamaleon is always trying to blend into his surroundings and I don’t think that’s exactly what I’m known for.

Ad accompagnare la produzione del disco Bowie chiama il sodale Tony Visconti, con lui nella maggior parte dei suoi album, il quale compone un roster di musicisti veterani e legati alla storia di Bowie come Earl Slick e Gail Ann Dorsey, e un gruppo di jazzisti newyorkesi tra cui spiccano il pianista Jason Lindner e il sassofonista Donny McCaslin. La presenza di musicisti jazz può portare erroneamente per chi scrive, ad una caratterizzazione di “Blackstar” come album jazz, ma così non è. Rimane un disco di cantautorato basato sull’art-rock la cui intenzione è quella di variare ed espandere la composizione strumentale associata al rock stesso. Espanderla come espanso è lo spazio: â’… suona molto spaziale, la parte strumentale infatti è presente in maniera imponente a volte predominando sui testi, e formando una distanza voluta e ricercata che evidenzia lo stile della scrittura, onirica e opaca, ma mai pesante.

Ad inizio ascolto si è catturati dalla title track e primo singolo estratto: 10 minuti di puro melting-pot musicale e culturale, che variano da Scott Walker al jazztronic, dall’esoterismo di Aleister Crowley a Bartòk, da Friedrich Nietzsche ai beat elettronici e rantoli arabeggianti. Il testo sembra incentrato su un occulto omicidio (“On the day of the execution/only women kneel and smile”), il ritmo è claustrofobico, sottolineato dalle percussioni martellanti e dal suono sibilante del sassofono che accompagnano la voce di Bowie, cupa e quasi in estasi di fronte all’avvenimento che sta raccontando. Ma le note si fanno via via più luminose, con l’ingresso del piano, andando ad illuminare anche la voce che si schiarisce per annunciare l’avvicendamento di un leader (?): Somebody took his place and bravely cryed: I’m a blackstar!
è sempre difficile cercare di interpretare un testo di Bowie, che è scritto per non essere interpretato, ma c’è chi si è spinto a dire che “Blackstar” abbia a che fare con il tema della religione e con l’influenza di quest’ultima negli eventi di geopolitica. Nel testo si da un luogo all’occulta efferatezza di cui si parla, che è una villa di Ormen: Ormen è un villaggio in Norvegia, il cui significato in norvegese significa serpente. La sezione centrale del brano è composta dal ripetere incessante I’m not a pop star, I’m a blackstar, I’m not a gangstar”…, che somiglia ad un richiamo all’immortalità .
Ci si è spinti a dire che abbia chiari riferimenti all’ISIS, ovviamente rispediti al mittente da Bowie. Credo più che giustamente aggiungo io, visto che l’astrattismo dei suoi testi è una sua prerogativa; le sue canzoni sono sul nulla, così da poter essere aperte alle più svariate interpretazioni.

Il disco continua con la seconda traccia con la quale Bowie sembra rifiatare dopo lo sforzo: inspira due volte e poi ecco “Tis A Pity She Was A Whore”, registrate in una prima versione nel 2014 come B-Side del 45′ “Sue (Or in a Season of Crime)”. Entrambe registrate di nuovo per l’inserimento in â’…, sono la summa maxima della partecipazione del gruppo di jazzisti all’album. Il sax tenore di McCaslin, la batteria di Mark Guiliana a cui per l’occasione si unisce il bassista Tim Lefebvre a completare una vera e propria isteria jazz che accoglie la voce di Bowie.
Nel 2015 abbiamo ascoltato molte cose memorabili e non, riconducibili a questo stile; Kendrick Lamar e Flying Lotus sono forse gli artisti che sono più riusciti nel loro intento e anche Bowie e il suo gruppo si saranno sicuramente lasciati ispirare da questa ventata di jazz un po’ rozzo e sperimentale.

“Lazarus”, terza traccia e secondo singolo estratto, si apre con una guitar line sognante che ben si sposa con il testo: Look up here, I’m in heaven/I’ve got scars that can’t be seen, il riferimento religioso è sicuramente presente anche in questo brano a partire dal titolo che fa riferimento al personaggio biblico.

Negli ultimi tre brani Bowie individua la frustrazione in maniera più decisa; Where the fuck did Monday go? si domanda in “Girl Loves Me”, dove ritroviamo anche il suo classico guaito nel cantato. Raggiungendo le note più alte oltre a ricordarci le sue doti vocali, la sensazione che ci trasmette è sempre quella di una sofferenza che si acutizza in questo caso con le percussioni incessatni di James Murphy.
In “Dollar Days” invece lo strumento dominante torna il sassofono con Bowie che si fa più malinconico e assorto: “I’m dying to push their backs against the wall and fool them all again.” Qui quello che emerge è come i musicisti sembrano aver avuto carta bianca in una forma di pazzia orchestrata.
La traccia conclusiva “I Can’t Give Everything Away” che si sviluppa in un groove di metà  anni ’80 che ricorda in maniera autocitazionistica, soprattutto nell’uso dell’armonica, “A New Career In A Town” dell’album “Low”, costituendo una delle melodie più accattivanti da un decennio a questa parte. Il testo chiude e rafforza i quesiti posti nel resto dei brani: Seeing more and feeling less/Saying no but meaning yes. Il cantato in vibrato è toccante.

â’… è un album triste, dove la preoccupazione per la morte e la paura e l’ansia di essere dimenticati la fanno da padroni. E Bowie ce lo comunica, come nel resto della sua carriera, in modo distaccato, senza riferimenti autoreferenziali o giudizi sulla società  e il mondo contemporaneo. Il suo stato d’animo viaggia nello spazio inesplorato galleggiando su quesiti esistenziali, senza mai andare a scavare in maniera viscerale solo per il gusto di sparare una sentenza.
He can’t give everything away, ma per noi è più che sufficiente. Ben tornato!