Nutrivo la giusta attesa, lo ammetto, per il secondo album dei norvegersi Pom Poko, il cui scintillante debutto di due anni orsono con “Birthday” aveva solleticato felici previsioni da next big thing, oltre che – il più delle volte ingombranti- paragoni con storiche sigle sociali all’insegna di un genuino indie rock (nonostante il loro background comprenda elementi jazz).

Servito il giusto hype, dal quale ho comunque voluto sottrarmi, era lecito ipotizzare che con “Cheater” i quattro giovani funamboli alzassero l’asticella, o per lo meno cercassero una strada originale, in modo da poter giustificare un simile entusiasmo.

Se è vero che gli antipasti serviti dai singoli si erano dimostrati quanto meno gustosi – dalla cadenzata “Andrew” alla più viscerale “My Candidacy” (che confermava istanze art – punk care all’esordio) – sulla lunga distanza sembra che le innate – e copiose – dosi di talento siano state non dico sperperate ma incanalate non sempre nel verso giusto, ahimè, quello tocca sottolinearlo.

L’inizio, con la traccia eponima, è più che promettente: tra i meandri di “Cheater” si avvertono echi di Veruca Salt e Bis: nomi da cultori, certo, ma da’ l’idea che i Nostri non vogliano avvalersi di concessioni troppo smaccatamente aperte al pop, seppur il brano in questione possieda una melodia incalzante a dir poco.

La traccia successiva è ancora più interessante nel suo incedere che ricorda palesemente i Breeders ma sa inoltre colpire con la sua veemente freschezza (ricorre qui il “famoso” cantato della vocalist Ragnhild Jamtveit, abile a mutare registro e tonalità  con una semplicità  disarmante).

Una formula diversa a livello compositivo, quasi a testimoniarci una possibile seconda via musicale del quartetto nordico, la riscontriamo nell’affascinante “Curly Romance” ma è un fuoco di paglia, un qualcosa di là  dal venire che non è (ancora?) stato sviluppato appieno in questo sophomore, quasi non ci fosse la giusta convinzione nel proporre episodi dall’andamento più misurato e cerebrale, passatemi il termine.

Altrove invece riecheggiano trame che fluttuano come schegge impazzite, col forte rischio di disorientare l’impaziente ascoltatore, fino a frastornarlo nei caleidoscopi sintetici di “Andy Go To School” e della successiva “Look” che ne ricalca gli stilemi, accentuando se possibile il lato confusionario.

“Baroque Denial” se non altro è sorretto da chitarre che riecheggiano il miglior post punk e da improvvise virate di drumming, mentre la conclusiva “Body Level” chiude all’insegna del facile disimpegno un album che lascia soddisfatti solo a metà , laddove si avverte un potenziale che chiaramente non è stato (almeno qui) del tutto espresso.

Sono giovani, carichi e pieni di consapevolezza i Pom Poko, anche se lì per lì pare siano anche abili a non prendersi troppo sul serio; la sfida sarà  cercare di contenere tanta frenetica esuberanza in lavori futuri che, ci auspichiamo, saranno (o meglio, dovranno essere) necessariamente più a fuoco.