Non c’è niente di male nel vedere degli slacker di successo diventare adulti a maggior ragione quando una pandemia ti costringe a eliminare tour mondiali con la tua band e a rintanarti per lunghi periodi tra le mura di casa; che poi, sarebbe neanche tanto così lontanamente plausibile immaginare come l’attività  prevalente di un indolente non immaginario come Lou Barlow   da 30 anni a questa parte, lui e i suoi due amici dei Dinosaur Jr, orsi narcolettici che si risvegliano al punto giusto, come recentemente dimostrato dall’ottimo peraltro “Sweep it into space”.

Poi, inizia l’ascolto di questo “Reason to live” e non si ha l’idea al solito di un disco forzato,   ma di una rimodulazione in termini domestici e più addolciti della poetica del nostro, un cantautorato che da 3 decenni in forma solista abbina melodie limpide come acqua di sorgente abbinate ad una serie  di domande e riflessioni personali che si interrogano sullo scibile, quello che ci appartiene, quindi mezzo infinito, ma per noi, per tutti ineluttabile ed eterno, in una pacatezza nuova, figlia di questo tempo senza risposte certe. Il livello quasi sopra le righe di certi testi (“All you people suck”, “Love intervene”, etc,.) insomma non è semplicemente da adolescente alle prime armi con le emozioni, ma è il livello di introspezione che un pò tutti siamo stati costretti ad affrontare per sopravvivere durante questi mesi di clausura, l’insofferenza al cambiamento, i cambi di umore, la nostra posizione nel mondo e rispetto al mondo, una serie di considerazioni che se fossimo negli anni 90, ma ancor più nei 2000 avremmo forse avuto bisogno di una profondità  alla Thom Yorke per poterci avvicinare, mentre adesso bastano questi 4 versi   di Lou per entrare in sintonia.

Il che non è un difetto, è come va il mondo adesso; ma comunque quella sintonia viene anche da altro,   anche dal tono divertito delle canzoni, quasi tutte interamente suonate da Barlow, con qualche lieve aggiunta di un drumming comunque esile, di un divertimento quasi fanciullesco, che ricorda nell’impostazione le ultime cose dei Magnetic Fields, una lunga serie assemblata, come si deduce dal patchwork di copertina, di canzoni discrete, brevi ma universali nella loro miniatura, con un carattere leggermente più aperto, con quella voce impastata, con quel look trasandato con fascia bianca raccogli capelli che fa tanta tenerezza e ci rende quest’uomo del tutto inattaccabile rispetto   alla pur minima critica negativa che un disco come questo potrebbe far sorgere, ad esempio, l’eccessivo numero di brani, una certa inevitabile noia insomma, che ad un certo punto arriva, ma fa parte del gioco.

Comporre per Lou deve essere sempre stato una forma di gioco, un personale Lego composto da  mattoncini sonori che corrispondono all’unione di più strumenti, un insieme di singoli pezzi monodimensionali, che esigono una mente disinibita ma anche in uno stadio di perenne isolamento, lontana da distrazioni, sbalzi umorali che minerebbero il loro perfetto incastro, autoreferenziale certo, ma sempre originale.