Approcciarsi a un nuovo disco dei Mountain Goats, ensemble rappresentato dal suo factotum John Darnielle, significa ogni volta rappacificarsi con l’universo indie, quello vero, non usurpato da esperienze sempre più mescolate col pop mainstream.

La loro è un’attitudine genuina, un’inclinazione autentica che, se pure è vero che le produzioni dell’ultimo decennio hanno denotato una metodica più professionale in fase di produzione, ha saputo mantenere intatta una filosofia naif e pura che si manifesta bene anche in “Dark In Here”, l’ultimo episodio della serie.

Giunto a un solo anno di distanza da quel gioiellino indie-pop che risponde al nome di “Getting Into Knives”, e registrato in pratica non appena concluse le sessioni che diedero vita a quest’ultimo titolo, le nuove canzoni appaiono a un primo ascolto indipendenti dalle stesse, sia a livello stilistico che tematico.

Si era all’inizio della pandemia e ciò in qualche modo, inevitabilmente, ha finito per influenzare il lavoro e determinarne un mood che, se non proprio oscuro e introspettivo, ha risentito della preoccupazione e di un senso di precarietà  che avvolge il tutto.

Non pensiamo però a un album triste, dalle dinamiche intermittenti e senza slancio, perchè la forza della poetica di Darnielle, ottimamente coadiuvato dal batterista Jon Wurster e dal bassista Peter Hughes (vecchio compagno d’avventure), cui si sono aggiunti i validi contributi del chitarrista Will McFarlane e del tastierista Spooner Oldham, sta proprio nel cucire sopra ogni brano la veste perfetta, garantendo però sempre e comunque una brillante leggerezza.

Dall’introduzione incalzante di “Parisian Enclave”, deliziosamente permeata di un moderno folk,   alla più concreta e pulsante “The destruction of the Kola Superdeep Borehole Tower” (incentrata su una storia un po’ dimenticata ma cruciale del secolo scorso, quando i russi scavarono a fondo la crosta terrestre), dalla placida ballad “Mobile”, rassicurante e ben esemplificativa dello spessore da songwriter di Darnielle, alla paradigmatica title track (che ricorda le atmosfere migliori dei Waterboys di Mike Scott), ci si sente inghiottiti da un vortice di good vibrations, cesellate in particolare dall’uso sapiente della melodia e della sei corde acustica.

Giungiamo così a uno dei primi punti focali del disco, quel tipo di canzoni che ti inchiodano all’ascolto e che fermano il tempo per quei quattro minuti, utili ad assaporare il senso di un’intera opera.

La traccia in questione, così differente da quelle ascoltate finora e da quelle che verranno, è “Lizard Suit”, che con le sue sferzate jazzistiche e la musicalità  cangiante, ridona il senso di irrequietezza che i Nostri si ritrovarono a vivere durante le registrazioni, quando i tg un giorno sì e l’altro pure iniziavano a delineare i contorni di uno scenario globale apocalittico (ahimè senza sbagliare previsioni!).

La ripresa, dopo la botta emozionale e lo “sfogo” dei musicisti impegnati con il rispettivo strumento, è all’insegna di un brano lento e intimista, “When a Powerful Animal Comes”, quasi soul a livello di sonorità , e anche il resto della scaletta si dimostrerà  per lo più omogeneo a livello di sound, con più di un’occasione dove saranno le tastiere a farla da padrone accanto alla tipica strumentazione rock.

Un nuovo sussulto emotivo arriva all’altezza della traccia numero 9, dal curioso titolo “The Slow Parts on Death Metal Albums”, ben congegnata e dall’esecuzione assai raffinata.

E’ un album di grande livello “Dark In Here” ed è incredibile constatare come il lungo percorso musicale dei Mountain Goats sia giunto in un tale stato di grazia sino ai tempi nostri, dagli esordi avvenuti a inizio degli anni novanta.

Segno inequivocabile di una qualità  compositiva e di un talento (di Darnielle e soci) davvero fuori dal comune.