Tutti hanno sentito parlare del rock progressivo, genere che negli anni ’70 provenne dall’Inghilterra e dominò le classifiche con band come i Pink Floyd, gli Emerson, Lake & Palmer, gli Yes. Ma è un genere, o piuttosto un’attitudine, come diceva il leader della band che, di fatto, fondò il genere nel 1969, Robert Fripp dei King Crimson? In otto capitoli, proviamo a fare una storia di come questa volontà  di fare musica rock “che duri” nel tempo, “progressiva”, nel senso di una volontà  non sedersi mai sugli allori del successo e continuare a sperimentare, sia proseguita ben aldilà  del periodo d’oro del Prog degli anni ’70. Fino ai giorni nostri, arrivando al “Brixton Sound” e passando dall’Art-rock, il Post-punk, il Post-rock, il Progressive-metal.

4. Il Prog italiano e europeo nel periodo d’oro.

Negli anni ’70, il Progressive dilagò in tutto il mondo. Mentre gli USA ne ascoltavano più di quanto ne producessero, nell’Europa continentale, l’Italia espresse un movimento prog rilevante sia artisticamente che commercialmente e celebrato anche all’estero. Secondo solo a quello inglese e almeno pari al Krautrock tedesco. Persino una icona pop come Lucio Battisti si espose alle influenze e all’attitudine prog che venivano dalla Gran Bretagna.  

Il Progressive che veniva dall’Inghilterra  travolse il continente non solo in termini di vinili venduti (vedi seconda puntata)  ma anche d’ispirazione artistica, con delle correnti prog che si affacciarono un pò in tutti i paesi. La Francia ebbe i Magma, che si distinguevano per l’uso di una lingua artificiale, il “kobaiano”, coerente con il loro immaginario fantascientifico simile a quello di altre band del genere (vedi la terza puntata).  L’Olanda produsse i Focus, che nel 1971 centrarono una hit intercontinentale con “Hocus Pocus”. Anche negli Stati Uniti si ebbe un movimento prog, con i Kansas  e gli Styx, band che però si assicurarono il successo solo virando decisamente verso l’Arena rock o “AOR”. Simile il destino dei Foreigner, band britannico-americana co-fondata dall’ex King Crimson, Ian McDonald. Più vicini allo stile delle band inglesi invece i Pavlov’s Dog (con i quali suonò persino Bill Bruford), che però non riuscirono mai a scalare le classifiche. La musica statunitense, più legata alla proprie radici blues e country, nella storia del Progressive Rock ha sempre giocato di rimessa, assicurando un grosso mercato alle band inglesi più che producendo le proprie.

Ma i movimenti artistici prog più importanti fuori dal Regno Unito, li troviamo in Germania e in Italia. Il Krautrock tedesco è una musica sicuramente “Progressive” nel senso dell’attitudine (vedi la prima puntata), ma con uno stile distinto e proprio rispetto all’Inghilterra. Sotto l’etichetta “Krautrock”, a cui gli interessati preferiscono quella di “Kosmiche Music”, rientra una quantità  di band che tra fine ’60 e i ’70 si ispirarono tanto alla psichedelia inglese, che all’art-rock americano dei Velvet Underground, che all’avanguardia classica di Stockhausen: dai Tangerine Dream, ai Can, ai Kraftwerk, passando per i Neu!, i Faust, i Popol Vuh. Contraddistinto da un ampio utilizzo degli ultimi ritrovati dell’elettronica e oscillando alcuni, come i Kraftwerk, tra strutture musicali rigide e ripetitive e altri, come i  Can, verso improvvisazione e sperimentazione a tratti estreme, il movimento ebbe una grossa influenza fuori dalla Germania sulla musica dei decenni successivi. A cominciare dalla New Wave e dal Post Punk, fino alla Electronic Dance Music di cui i Kraftwerk in particolare furono pionieri.

Come visto nelle puntate precedenti, il Prog inglese del “periodo d’oro” ebbe importanti riscontri di pubblico anche in Italia. Si tratta di un genere tutt’oggi seguito nella nostra penisola, dove appare regolarmente in edicola la rivista “Prog”, già  edizione nostrana dell’ononima britannica, ora testata indipendente. Nei “’70 il nostro Paese produsse la sua propria corrente e si parla di Rock progressivo italiano, un movimento nazionale forse inferiore solo a quello britannico, al quale comunque assomiglia molto di più che il Krautrock. Il Prog italiano produsse una pletora di artisti che ebbero un certo successo in patria e, nei limiti, anche fuori. Interessante per esempio, il riscontro che viene dal Giappone, paese dove tutt’oggi le storiche band prog italiane si recano in tour. Premiata Forneria Marconi (PFM), Banco del Mutuo Soccorso e Le Orme, furono i gruppi che cercarono successo anche in lingua inglese. Con il sostegno di etichette britanniche, come Manticore records (che apparteneva agli ELP) e Charisma, pubblicarono dischi nella lingua di Shakespeare, con testi curati da Peter Sinfield (King Crimson, ELP) o da Peter Hammill dei Van Der Graaf Generator. Non ebbero grande successo, con la parziale eccezione della PFM che riuscì a piazzare “Photos of Ghosts” al numero 180 delle charts USA e “Chocolate Kings” nella top 20 del Regno Unito.  Le Orme produssero nel 1971 “Collage”, forse il primo album prog italiano. La band era un trio, come i Nice, gli ELP o i Quatermass (altro gruppo prog inglese che ebbe maggior successo da noi che in patria). Dal successivo “Uomo di Pezza”, cominciarono a inanellare dischi d’oro.

I  Goblin sono stati  forse il gruppo prog italiano che ha avuto maggiore successo, in patria e all’estero, grazie alle colonne sonore dei film di Dario Argento e, forse, grazie al fatto di fare musica strumentale e non avere barriera linguistica. Sia i film che i soundtrack sono acclamati da fan e critica e godono di una popolarità  che arriva agli USA, dove le attuali incarnazioni della band (ce ne sono ben 3, segno che l’interesse del pubblico permane), continuano ad andare in tour. I Goblin sono fortemente influenzati da artisti come King Crimson, Mike Oldfield, Yes, ELP, ma hanno creato uno stile proprio, fortemente riconoscibile, grazie anche a riff   che sono ormai nell’immaginario collettivo non solo italiano.

Area, New Trolls, Il Volo, Perigeo, Balletto di Bronzo, Osanna, per citarne solo alcuni, furono altri dei tanti artisti di solido valore artistico che il Prog italiano produsse e che raggiunsero talora una certa popolarità . In Italia, gli anni “’70 erano caratterizzati da una forte radicalizzazione politica e molti di questi artisti erano politicamente schierati a sinistra. C’e’ da chiedersi se, alcuni dei gruppi che non presero posizione (come i bravissimi Il Volo, usciti dalla scuderia Mogol-Battisti della Numero Uno) non ne pagarono lo scotto in termini commerciali. Al contrario, gruppi “impegnati” come il Banco e gli Area potettero godere del sostegno dell’apparato propagandistico e del passa-parola della sinistra extraparlamentare italiana di quegli anni. Lo stesso apparato che aveva bollato Lucio Battisti come “fascista”, o che fece l’infame processo sul palco a Francesco  De Gregori.

Altra caratteristica del Prog italiano e’ la presenza di una minore influenza jazz (con l’eccezione dei Perigeo, più una band fusion che Prog e, a tratti, degli Area) o blues e una maggiore assonanza con la musica classica europea. I principali compositori di quei gruppi (Simonetti, Fariselli, Premoli, Nocenzi) venivano infatti da studi classici. D’altronde, l’Italia aveva questo tipo di formazione musicale e i musicisti in grado di fare musica a certi livelli potevano solo venire dai conservatori classici (i primi conservatori jazz nacquero da noi solo negli anni “’70). I musicisti che formarono questi gruppi ebbero talora carriere importanti nel music business del pop italiano degli anni “’70 e “’80. I Pooh, musicisti di grande caratura tecnica, fecero diversi dischi prog fino almeno al 1975 e, anche dopo aver virato su cose più leggere, la loro musica ha continuato a risentire l’influenza delle sonorità  progressive. Persino l’esperienza dei Napoli Centrale, da cui viene Pino Daniele, non può non classificarsi come “prog”. In questo caso, raro nel panorama italiano, la band era influenzata soprattutto dalle sonorità  fusion e blues americane, grazie alla presenza della base militare USA in città .  

Un discorso a parte merita Lucio Battisti, genio non sempre compreso della nostra musica. Forse perchè difficile da catalogare, in trent’anni di carriera a meta’ strada tra il fenomeno pop per famiglie e un’attitudine esageratamente “prog”. Battisti  aveva introiettato musicalmente gli stimoli che venivano dal mondo anglosassone, prima e più di tanti suoi colleghi nostrani. Wilson Pickett era una influenza ovvia, già  in “Un’avventura”. Tutto il sound Motown era per Battisti una grande passione. Ma già  in “Amore e non amore” (1970) si va oltre: si tratta di un concept album (tra i primi in Italia, con i New Trolls e Fabrizio De Andrè), con larghi tratti di sperimentazione e psichedelia che non potevano che venire dal Regno Unito. E da qui e’ un crescendo in cui l’artista di Poggio Bustone, dimostrando una sempre crescente cultura ed eclettismo musicale, nonchè una incredibile capacità  di assimilare i sound più disparati, giunge a confezionare il suo capolavoro nel 1974: “Anima Latina”, altro “concept imperfetto” (una definizione che potrebbe adattarsi a “Sgt. Pepper’s”, un altro concept non pienamente coerente. Mentre “The Wall” sarebbe un buon esempio di “concept perfetto”). Mentre il precedente “Il Nostro Caro Angelo” era ancora una raccolta di canzoni, per quanto dense di sperimentazioni stilistiche, “Anima Latina” è una suite divisa sui due lati del disco, nella migliore tradizione del progressive inglese. Una miscela incredibile di sonorità  “black”, latine, mediterranee e anglosassoni. In “Anima Latina” c’è il Brasile, dove Battisti e Mogol erano stati in viaggio, c’è la fusion jazz con tanti tempi dispari, ma anche ritmi R&B e iberici, ci sono canti e melodie di chiara impronta nostrana, ma anche costruzioni “orchestrali” alla Yes/ELP e sintetizzatori da Krautrock e atmosfere alla Pink Floyd. Per non parlare del lungo e intenzionale lavoro in fase di missaggio per favorire il ruolo attivo dell’ascoltatore, come spiegò lo stesso Battisti. Più “prog” di cosi’, impossibile. E immagino sia solo per l’abitudine di catalogare gli artisti entro generi impenetrabili (quindi Battisti sarebbe pop o poco più) che “Anima Latina” non compare mai nelle rassegne e nelle classifiche dei principali dischi progressive. “Anima Latina” fu stroncato dalla critica dell’epoca. D’altronde, vendette “solo” 250.000 copie, poco per Battisti. Performance deludente dovuta anche alla mancanza di singoli. Ma il disco è, oggi, osannato dalla critica e considerato l’apice della sua avventura artistica. Cosa daremmo per ascoltare un remix di Steven Wilson (non che quello originale non ci soddisfi), il genio che ha rivitalizzato tanti capolavori del prog classico. Gli eredi di Battisti non lo consentiranno mai, sbagliando perchè la musica non appartiene all’artista (i diritti d’autore, quelli si’).

Battisti non smetterà  di rompere gli argini tra i generi anche nei decenni successivi. Fino a “ritirarsi”, negli ultimi anni della sua carriera e dopo l’incontro con il paroliere Pasquale Panella, in una specie di “elettro-pop”  (reminiscente a tratti di certo Krautrock) che, ancora una volta, nessuno aveva mai fatto prima in Italia, dissipando spensieratamente il proprio patrimonio commerciale. Accompagnato, per di più, con testi irritantemente criptici. Lo dico ancora: più prog di cosi’, impossibile.  Il pubblico avrebbe voluto che Battisti ripetesse per sempre “La Canzone del Sole”, “Ancora Tu” e “Una donna per Amico”. Magari apparendo in TV, nelle serate mondane e concedendoci pure un po’ di live. Perchè non rimase a sfornare successi con Mogol e poi magari a ripeterli quando non ne sarebbero stati più capaci? “L’artista non esiste, esiste solo la sua arte” ““ disse Battisti nella sua ultima intervista, prima di cambiare strada radicalmente. “E’ al servizio della musica, non il contrario” ““ si può aggiungere parafrasando l’ex percussionista dei King Crimson, Jamie Muir.