C’è stato un momento, un ventennio fa ormai, in cui la formula degli Oasis (nonostante gli innesti nella line-up di Gem Archer e Andy Bell) ““ mostrando tutti i propri limiti ““ aveva finito, inesorabilmente, per stancare, e la stella degli Arctic Monkeys non aveva iniziato a brillare ancora. Tempi magri si penserà , e invece no. Perchè in quel lasso di tempo la cara, vecchia, perfida Albione sfornava l’ennesimo gruppo capace di imporsi sul proscenio con arroganza e stile: The Libertines. Il quartetto, capitanato da due terribili ragazzetti very middle class, vale a dire Carl Barà¢t e Pete Doherty, proprio vent’anni esordiva con il primo disco: “Up the Bracket”, quaranta minuti scarsi di genuina tardoadolescenziale rabbia frustrata e poetiche esigenze comunicative sempre in bilico fra velleità  da poeti maledetti parnassiani e fierezza britannica che le cui radici risalgono alla regina Boudicca (citata anche in “The Good Old Days” e che finirà  nella copertina di “Let It Reign”, esordio del 2016 dei Carl Barà¢t and The Jackals).

Che qualcosa di grosso bollisse in pentola lo si era già  capito il 3 giugno quando la band aveva pubblicato “What a Waster”, il primo singolo che in nemmeno tre minuti condensava collera, nichilismo e disperazione, un quadretto per nulla rassicurante del Regno Unito nel nuovo millennio: la Cool Britannia era ormai morta e sepolta, checchè ne dicessero Tony Blair o Noel Gallagher, e gli effetti delle politiche di Maggie Thatcher non erano ancora terminati, anzi”…

Dopo un così folgorante anticipo ci si aspettava un album epocale e Carl e Pete, menti e cuori del gruppo prima ancora di esserne i songwriters e i chitarristi, non delusero. “Up the bracket” è un disco che trasuda Clash ““ in cabina di regia c’è Mick Jones, magistralmente abile nell’assecondare e preservare la spontaneità  della band ““ ma anche Smiths (e forse anche i Jam) e, allora come oggi, è un’opera che suona maledettamente bene e che non ha perso un’oncia del proprio smalto. Le canzoni sono tutte sospese fra perfida ironia inglese, frustrazione e urgenze giovanili mentre Doherty e Barà¢t declinano la deliziosa abrasività  dei loro pezzi alternandosi alla voce, mentre John Hassall e Gary Powell ““ molto più che semplici comprimari ““ assicurano una potente e strutturata base ritmica in grado di reggere le esaltanti scorribande dei cantanti.

Si parte con “Vertigo” che incalza fin dall’inizio, “Death on the Stairs” aumenta i giri del motore mentre “Horroshow” è solo furia. “Boys in the band”, potenti chitarre melodiche e cori furbi quanto intelligenti, mantiene alta l’attenzione prima dell’indolente “Radio America”, seguita dalla turbinosa “Tell the king”. “The Boy Looked at Johnny” sembra registrata in un pub dopo svariate pinte e il gruppo sembra guardare più al rock dei “’50s che a quello dei “’60s (se proprio si vuole trovare un difetto al pezzo si potrebbe dire che la sua formula ha fin troppo ispirato i The Fratellis, band capace di stancare ancora prima di iniziare). “Begging” è solo in apparenza un abbozzo stiracchiato sino a diventare una canzone, ma è tutta fascino, mentre “The good old days”, fra ricercate linee di chitarra e delicati passaggi lirici, è un lucidissimo monito all’ascoltatore, perchè i bei vecchi tempi non riguardano “tenements and needles and all the evils in their eyes and the backs of their minds“, ma piuttosto “a list of things we said we’d do tomorrow“. Ma l’esordio dei Libs è soprattutto il disco di “Time for Heroes” con i suoi “stylish (e british, à§a va sans dire, giacchè: “There’s fewer more distressing sights than that of an Englishman in a baseball cap“) kids in the riot” che sembrano novelli mods sulle spiagge di Brighton intenti a far a catenate coi rockers, come cantavano gli Who, ma anche della grintosissima “Up the bracket” e di “I get along” che, furiosa e imperiosa, chiude, fregandosene di tutto e tutti, un disco capace di emozionare anche dopo vent’anni.

La storia del gruppo si complicherà , Barà¢t e Doherty inizieranno a bisticciare e il secondo album ““ il notevole omonimo ““ ne risentirà , poi sarà  tempo di Anthony Rossomando, droga, processi, separazioni, Babyshambles e Dirty Pretty Things; ma questa è un’altra storia, come quella che la sussegue e che vede il riavvicinamento dei Libertines e il loro ritorno in pista, deo gratias!

Pubblicazione: 21 ottobre 2002
Registrato: agosto 2002, Studio RAK, Londra
Genere: Indie rock, punk rock, garage rock revival, garage punk
Lunghezza: 36:33
Label: Rough Trade
Produttore: Mick Jones

Tracklist:
Vertigo
Death on the Stairs
Horrorshow
Time for Heroes
Boys in the Band
Radio America
Up the Bracket
Tell the King
The Boy Looked at Johnny
Begging
The Good Old Days
I Get Along