Se con il suo disco d’esordio (“Blush”) uscito due anni fa, la giovane figlia d’arte Maya Hawke (i genitori sono i celebri attori Ethan Hawke e Uma Thurman), mostrava buon talento ma ancora una personalità  acerba e un’identità  musicale in sboccio, pur muovendosi su coordinate riconoscibili, nel suo nuovo lavoro intitolato “Moss” si avverte una crescita a tutti i livelli.

La Nostra infatti ha affinato maggiormente il suo stile, conducendolo su un versante cantautorale di matrice folk, memore dell’esperienza di artiste a cui lei mira in modo dichiarato (come la Taylor Swift di “Folklore”), e nel farlo ha dunque accentuato quelle atmosfere intime, delicate, che già  permeavano l’album precedente.

Maya appare più sicura dei propri mezzi, con una raggiunta maturità  sul piano della scrittura che fa sì che brani come “Driver”, “Sticky Little Words” o “Hiatus” (tra i migliori del lotto) finiscano per tratteggiare fedelmente la sua persona, con annesse fragilità  ed emozioni qui tradotte in maniera fedele.

L’artista statunitense insomma non “arrossisce” più come ai tempi del debutto (parafrasandone il titolo) e veleggia fiera e consapevole, sin dall’apertura affidata alla carezzevole “Backup Plan” e alla suggestiva “Bloomed Into Blue”, che preparano il terreno per la già  citata “Hiatus”, che colpisce con la disarmante sincerità  dei suoi versi.

Non sono necessari grossi artifici sonori, in fondo sono tutte canzoni che poggiano su una chitarra acustica al più gentile e poco invadente, quasi volesse lasciare del tutto spazio all’aggraziata voce dell’ autrice, per farci veicolare meglio il suo vissuto.

Qualche variazione sul tema c’è, onde evitare di dare al lavoro una natura troppo monocorde, e si declina nei toni effervescenti di “Sweet Tooth”, in “South Elroy” (l’episodio più pop) o nella deliziosa “Luna Moth”; una menzione a parte la merita il singolo “Thèrèse”, corredato da un video conturbante e forte di un raffinato arrangiamento, in grado di ammaliare con i suoi arpeggi intriganti e il misterioso cantato.

In generale però prevale sempre quel senso di familiarità  che riesce a trasmetterci in brani che denotano buon gusto, così soffusi e spogliati da architetture, si pensi anche alla malinconica “Over” e all’elegante “Restless Moon”.

La magia di “Moss” risiede nel fatto che suona comunque “pieno”, grazie anche a una produzione limpida (ad opera di Benjamin Lazar Davis) che pulisce le asperità , togliendo quella patina grezza da registrazione “casalinga”, quale potrebbe sembrare un’opera con caratteristiche simili.

Invece qui si riscontra tutt’altro, dal momento che nulla è lasciato al caso: l’album è stato registrato al Long Pond Studio, il cottage di Aaron Dessner, da cui sono passati artisti come Bon Iver, la stessa Taylor Swift della svolta folk, oltre ovviamente ai National (gruppo principe del titolare) e hanno collaborato alla sua riuscita musicisti di accreditato livello come Christian Lee Hutson (già  al fianco di Phoebe Bridgers e sodale delle Boygenius), Marshall Vore e Will Graefe,  chitarrista degli Okkervil River  che con lei duetta nella dolce “Crazy Kid”.

Insomma, si respirava aria buona in quello che è una specie di covo della miglior generazione indie a stelle e strisce. Alveo dove di diritto potrebbe entrare anche Maya Hawke, sempre più a suo agio nel mondo delle sette note, lei che forte del successo di “Stranger Things” sembrerebbe destinata a ripercorrere altre gesta ben assodate tra le mura di casa. Ma in fondo perchè ingabbiare un talento simile, capace di esprimersi nelle più svariate forme?