Ci si prepara, ci si crede, si hanno un minimo di aspettative (nonostante un singolo di poco conto le avesse fatte ancora drasticamente calare), il pelato ci invoglia e ci stuzzica parlando di un seguito di “Mellon Collie and the Infinite Sadness”, così come di “Machina/The Machines of God” (la chiusura della trilogia)…e poi arriva “ATUM parte 1” e ti viene voglia di telefonare a Billy Corgan, se mai avessimo il suo numero, per chiedergli cosa ha in testa, urlandogli: “Ma perchè non la smetti di infangare un nome che fu cosi glorioso?“.

Potrei tranquillamente dire di come l’album, purtroppo, guardi musicalmente ancora a “Cyr” (disco che trovavo ripugnante) vista la sua predilezione per l’elettronica, potrei dire che, quindi, i synth ancora la fanno da padrone (e una canzone puramente synth-pop come “The Gold Mask” non mi dispiace nemmeno, seppur senza chissà  quali spunti) e che ogni tanto qualche riff di chitarra un po’ “arrabbiato” (non fatemi dire pesante, perchè non sarebbe vero) fa capolino (“The Good in Goodbye”, forse il brano migliore). Certo potrei farlo e non sbaglierei. Però ovviamente non basta.

Potrei parlare dell’apertura “pomposa” con la title track (che mi ha fatto pensare a un disco dai suoni ridondanti, quasi prog o pinkfloydiani, cosa che invece non accade, perchè si preferisce restare piuttosto asciutti) e sarei bellamente e doverosamente in tempo per dire che Corgan con l’ambizioso alt (hard) – rock di un tempo non ha più nulla a che vedere e che, ora, dobbiamo farcene una ragione se è tutto invasato dei suoi bei sintetizzatori che spesso prendono le luci della ribalta negli arrangiamenti (perché qui si deve andare a parare, basta speranze di rock chitarristico vecchio stampo). In curva riesco ancora a dire che la scrittura di Corgan generalmente è senza mordente o, almeno, senza chissà  quali melodie memorabili (e il brutto del disco è qui, in canzoni tutt’altro che irresistibili, al di là del genere), ma tutto sommato il ritornello di “Beyond The Vale” ha pure una sua dignità  e trovo anche il tempo per chiedermi come siamo arrivati ad avere un brano come “Hooligan”,   che pare più un pezzo dei White Lies che dei SP…ma poi ecco che tutto quello che potrei dire, in modo ragionato, finisce con “Hooray!”, perché con quel brano ogni cosa smette di avere senso. Un disco, con una canzone come “Hooray!”, merita ogni cosa più turpe gli si possa dire. L’avessero fatta i Pinguini Tattici Nucleari magari avrei sorriso e ci avrei pensato un po’ prima di bestemmiare, ma qui, con il marchio Smashing Pumpkins non è possibile esimersi: la blasfemia diventa un diritto, anzi, un dovere e non c’è un cazzo da ridere, al massimo da piangere.

La canzone è quanto di più ignobile sia mai uscito dallla penna di questa band: una porcheria che non riesco nemmeno a definire synth-pop, è solo imbarazzante e basta. Ho i brividi a ripensarla, figurarsi a risentirla.

Ci si chiede cosa stessero facendo Jeff, Jimmy e James in quel momento, ci si chiede come abbiano potuto avallare una simile oscenità  così inspiegabile. Non c’è risposta (a meno che pure loro non siano tra gli autori e allora si potrebbe veramente parlare di delirio collettivo). Mi auguro solo che fino all’ultimo abbiano combattuto per non averla in scaletta, desistendo solo alla fine.

Ecco quindi che i fan o i recensori potrebbero dire ogni cosa di questo album, potrebbero anche trovarci qualcosa di buono, poco poco a dire il vero, ma poi se in tracklist appare una canzone come “Hooray!” (a mio avviso, mi ripeto e lo rimarco, il brano più brutto di sempre dei Pumpkins), beh, il discorso non può che chiudersi inevitabilmente e drasticamente (perchè simili immondizie bloccano ogni tipo di discussione) e, insisto, si deve prendere in mano il telefono e implorare Corgan di fermare lo scempio. “Cyr” era immondo, questo mi pare un po’ meglio, ma “Hooray!” è veramente la pietra tombale sulla fiducia che qualcuno poteva avere verso il pelatone.

Se questa è la via maestra, ecco, diciamo che per il secondo e terzo capitolo di “ATUM” il terrore si sta già  impossessando di me.