Dopo un primo album nato dal frutto di una collaborazione tanto casuale quanto intrigante, Luke Haines e Peter Buck hanno di nuovo voluto incrociare le loro traiettorie artistiche e umane dando vita a un progetto corposo ma che, al dispetto di una lunghezza un po’ eccessiva, è sembrato sin dal primo ascolto più coeso e mirato.

“All the Kids Are Super Bummed Out” segue a distanza di soli due anni “Back Poetry For Survivalists” (non si può certo dire che i due non siano fantasiosi sin dai titoli scelti) e in un’ora abbondante racchiusa in diciassette brani va a riallacciarsi idealmente a certa psichedelia memore degli anni settanta, da un punto di vista soprattutto concettuale che non prettamente musicale.

E’ per lo più una questione di approccio, di attitudine a rendere affini queste due nobili anime, e a permettere la fruizione libera delle note e delle melodie che sgorgano copiose ad ogni traccia, conducendo l’ascoltatore in un viaggio distorto e sconnesso dal “qui e ora”, ove lo spazio per concentrarsi tutto in una sequenza di immagini va trovato irrimediabilmente.

Haines d’altronde tratteggia testi assecondando il suo istinto e la sua arguzia dialettica, con largo utilizzo di metafore da una parte ma anche definendo contorni ben più reali e attinenti alla realtà  dall’altra; Buck al contempo innesta robuste dosi di chitarra, ora effettate, ora vibranti ma mai prevaricatrici, come un artigiano d’alta scuola, quale lui è avendo per tutta la carriera contraddistinto il suono cangiante di una band epocale come i R.E.M.

Tra i musicisti coinvolti figurano vecchi compagni di avventure come il versatile Scott McCaughey (che qui suona basso e mellotron), e la talentuosa batterista Linda Pitmon.

Non manca nella tavolozza dei colori con cui adagiare gli arrangiamenti l’inserimento del flauto di Pan, piuttosto preponderante all’epoca del primo disco ““ con risultati onestamente non del tutto convincenti, per usare un eufemismo ““ ma qui invece incanalato nella maniera giusta, donando quel giusto appeal a brani altrimenti sin troppo simili nella loro stesura.

L’inizio è bello energico e mette in luce, mediante la proverbiale ironia noir di Luke Haines (un tratto già  piuttosto peculiare quando guidava gli indimenticati Auteurs), quella mai celata ritrosia dell’autore nei confronti delle istituzioni britanniche, in un titolo paradigmatico su quella che sarà  la natura dell’intera opera: “The British Army on LSD”.

Decisamente tonica e arrembante anche la successiva dichiarazione di intenti, tra l’altro più volte reiterata durante il brano, “The Skies Are Full of Insane Machine”, in cui Buck segue i proclami del cantante creando un’atmosfera avvolgente col sintetizzatore Moog, proiettandoci a ritroso nel tempo, o forse spingendoci a spasso nello spazio sconfinato.

Dolci note di flauto e una produzione misurata fanno da cornice alla dolcezza intrinseca di “Sunstroke”, prima di farci avventurare nella centrifuga sonora di “45 Revolutions”, acida e tagliente.

E’ difficile seguire il flusso narrativo di Haines, che spesso si inoltra in territori impervi, come fosse un novello Icaro, perdendosi nelle pieghe sottili di “Psychedelic Sitar Casual” fino al punto di sprofondare sotto i forti colpi di batteria e synth di “Subterranean Earth Stomp”; con un colpo di coda però il Nostro riemerge e chiude la prima facciata con la sognante e purificatrice “When I Met God”, avvolta dalle celestiali note di chitarra del compare Buck.

Nella seconda parte del disco meritano certamente una menzione la dilatata marcia sonica di “Exit Space (All the Kids Are Super Bummed Out)” pervasa da un’atmosfera misteriosa e assai suggestiva, una rilassata e ambigua “Iranian Embassy Siege”, dalle accentuate aperture melodiche di stampo mediorientale,   l’ariosa “Flying People” dall’incalzante melodia e la curiosa “Diary of a Crap Artist” (fosse anche solo per il suo irriverente titolo).

Alla fine dopo tanto peregrinare giunge all’altezza dell’ultima traccia l’agognato incontro con qualcosa di “altro” rispetto a noi, che magari possa contenere quel barlume di umanità  che i “ragazzi” protagonisti di questo accidentato percorso sembrano aver smarrito stando a contatto con la società  odierna: “Waiting for the UFOs” assomiglia così a una piacevole carezza, tradotta dalle parole di Haines finalmente di conforto e da una musica calda e accogliente.

Di questo album piace l’assoluta disponibilità  dei due protagonisti ad abbracciare diversi contesti musicali, non perdendo mai la bussola: d’altronde la loro storia parla da se’ e, per quanto non tutte le canzoni denotino la medesima qualità , è giusto riconoscere come una certa vena ispiratrice non si sia esaurita.

Di certo Haines e Buck in questo secondo lavoro sono apparsi molto più affiatati e ciò lascia presagire segnali incoraggianti per il futuro di questo duo che, tuttavia, continuo personalmente a ritenere ancora un po’ insolito.

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