Dicono che trattasi di un disco “molto, molto europeo” e “anti-brexit”: “un road movie, un inno ai suoni e ai paesaggi che si incontrano guidando attraverso l’Europa”, secondo i Kerala Dust, inglesi trasferitisi oltre-manica.

Credit: Andrin Fretz

Non credo abbiano guidato ultimamente anche dalle parti della riviera dei fiori, però le influenze italiane sono comunque chiare grazie a un paio di titoli nella nostra lingua e a certe atmosfere che rimandano direttamente a Ennio Morricone. Altra influenza rivendicata dai nostri è quella dei tedeschi CAN: vedi la title-track, come anche “Pulse VI”. Un kraut-rock in salsa pop, se vogliamo, una roba alla Notwist. Viene in mente anche il belga Warhaus – anche se è più probabilmente un compagno di strada che un ispiratore – ascoltando cose come “Moonbeam, Midnight, Howl”: soul per il popolo, nonché Tom Waits per i poveri (di Jack Daniel’s).

D’altro canto però, ci si chiede anche se, al giorno d’oggi, con la rete che tutto connette, si possano distinguere “i suoni” dell’Europa continentale da quelli del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord. E difatti, possiamo sentire tra le tracce, anche tracce (bel gioco di parole) di black music britannica alla Sault/Young Fathers. Ma forse, la band a cui assomigliano di più sono, i sempre britannici, King Hannah, con cui condividono il gusto per certe decadi passate.

Mi chiedo: se io fossi britannico e brexiteer, piuttosto che un italiano morriconiano e europeista, non potrei apprezzare questi ritmi sensuali, da motorik arrapato, a cavallo tra il riscaldamento pre-disco, la lounge da aperi-cena e la malinconia da isolamento volontario? O forse è vero il contrario: questi ritmi strascicati non sono il tipo di roba che un “no-euro” ascolterebbe, tanto a Birmingham che a Bergamo.

La questione è irrisolvibile e in realtà irrilevante. Ciò che sì interessa è il giudizio complessivo su un disco che seppur non brilla forse per originalità eccessiva malgrado lo sforzo “pan-europeista”, ti inchioda ugualmente nell’ascolto senza fare troppa fatica. E ti mantiene lì, ad ascoltare una serie di soluzioni e sfumature che, ancora una volta, non sono particolarmente originali ma che mantengono ugualmente alta l’attenzione dopo una serie di ascolti: gli scricchiolii dell’elettrostatica, le armonie blues, i lick di chitarra, ecc… Un crescendo che trova la sua apoteosi nel singolo “Still There”, la traccia che più di ogni altra ammalia e conquista.

“Violet Drive” alla fine si muove in uno scenario in cui tutto è consentito. L’elettronica e l’acustica. Il blues e la new wave. La psichedelia e il pop. Il risultato è rotondo, orecchiabile ma profondo. Convince e può piacere agli ascoltatori più diversi.