Feist sei anni dopo “Pleasure” chiude un periodo difficile in cui si è confrontata con mille alti e bassi – la morte del padre, la nascita della figlia, il tour con gli Arcade Fire abbandonato dopo le ben note accuse che hanno coinvolto Win Butler – cesellando dodici brani tra leggerezza e introspezione, con l’aiuto dei co – produttori Robbie Lackritz e Mocky, di polistrumentisti d’esperienza come Gabe Noel e Shahzad Ismaily.

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Credit: Sara Melvin & Colby Richardson
Credit: Sara Melvin & Colby Richardson

“In Lightning” apre i giochi con il piglio della canzone alt pop di razza, trascinata da una voce inconfondibile che si scinde, si separa in mille rivoli e armonie, un arrangiamento frizzante e ritmato, preludio a una ben più drammatica ed emotivamente carica “Forever Before” tra sintetizzatori, chitarre, melodie inaspettate. Tre brani prettamente acustici – “Love Who We Are Meant To”, “Hiding Out In The Open”, “The Redwing” – riscaldano l’atmosfera prima delle confessioni a cuore aperto di “I Took All Of My Rings Off” e “Of Womankind”.

Il ritmo torna a farsi sostenuto in “Become The Earth” e “Borrow Trouble” per poi lasciar spazio a un finale sincero e riflessivo, che unisce la complessità sonora di “Calling All The Gods” all’onestà di “Martyr Moves” e “Song For Sad Friends”, brani eleganti affidati ancora una volta alla voce e alla chitarra che tesse arpeggi semplici ma intensi, significativi. “Multitudes” è un album frammentario, un caleidoscopio distorto e variegato che cambia forma, geometria, con un rapido gioco di mano.

Questo è il fascino del nuovo lavoro di Feist e anche il suo piccolo difetto, non scegliere una sola strada ma esplorarne molte abbracciando l’incertezza, seguire un percorso non lineare per descrivere un momento di vita complesso, con coraggio ma senza quella visione d’insieme che dava al predecessore “Pleasure” – a cui aveva partecipato Mocky insieme a Renaud Letang –  una marcia in più.