Il tempo scorre veloce, così tanto che ti guardi indietro e ti rendi conto che sono già 20 gli anni trascorsi dall’uscita di un album come “Hail To the Thief” dei Radiohead!

Sarà  che per il quintetto di Oxford ogni disco sembra rappresentare, oggi come allora, una fase diversa, nuova, entusiasmante, fatto sta che risulta oltremodo difficile catalogare ogni singolo episodio, come fosse una “semplice” tappa di un percorso o di una carriera, eccezion fatta forse per il binomio “Kid A/Amnesiac” che di fatto pose fine alla parola “Rock” come lo avevamo sempre concepita e ci proiettò nel vero senso della parola in un’epoca nuova, nel futuro, quello che i 2000 nell’immaginario di tutti sembravano già  suggerire.

Quello fu uno stacco netto, deciso, come detto non solo nei confronti dei precedenti album di Thom Yorke e soci, ma nei confronti di tutti gli altri gruppi e artisti. Nelle canzoni dei Radiohead, sempre intense e suggestive, si persero quasi del tutto gli elementi fondanti della musica che ci avevano fatto amare: le chitarre erano quasi assenti, i ritornelli deflagranti pure, persino la voce di Yorke, così forte e caratteristica, perdeva i suoi connotati per farsi essa stessa strumento.

I risultati furono eclatanti, non solo dal punto di vista artistico, ma ““ vero e proprio “miracolo” ““ anche da quello meramente commerciale, visto che “Kid A” arrivò fino al primo posto nella classifica di BillBoard, ed era la prima volta che i Radiohead si issavano in cima ai gusti musicali degli americani.

“Amnesiac”, concepito e registrato contemporaneamente, ne era di fatto un’emanazione, il suo gemello, come da più parti definito, e confermò gli straordinari exploit di vendite e popolarità . Erano il gruppo più importante del mondo all’inizio del nuovo millennio.

L’asticella della sperimentazione, del rock via via declinato come “prog”, elettronico, “post”, ambient, nonchè contaminato con il jazz d’avanguardia, era stata clamorosamente alzata, e nell’approcciarsi alle canzoni che avrebbero poi determinato il nuovo disco di inediti, i cinque si ritrovarono a non voler rinnegare nessuna delle loro anime, quella genuina, melodica, pop degli inizi e quella appunto “indietronica” del periodo successivo.

Le canzoni nuove erano già  state in gran parte ascoltate dai fans durante alcuni concerti e qualcosa era stato trapelato, d’altronde i Radiohead avevano rivoluzionato la musica anche per alcune scelte coraggiose e anticipatrici dei tempi, come la divulgazione in rete dei loro lavori, in un’epoca in cui Spotify per fare un esempio era di molto in là  a venire.

“Hail To the Thief” era attesissimo e quello che tutti si aspettavano (o auspicavano) era in effetti un ritorno in qualche modo alla “forma canzone” propriamente detta, o per lo meno,   come lasciato intendere dagli stessi protagonisti, un compromesso artistico.

Non si può certo dire che le cose non andarono così, nonostante il mistero sia da sempre insito in ogni loro progetto. Anche questa volta i fanatici della band, o meglio, i più attenti fans del gruppo, si sono sbizzarriti nel dare significati, che non necessariamente nelle intenzioni della band erano reconditi, a ogni singola parte del disco, dalla copertina, alle frasi che la compongono, ai testi ““ da sempre enigmatici ma soprattutto paradigmatici della grandissima e complessa personalità  del leader ““ finanche alle scelte musicali, giacchè sin dall’epocale “Ok Computer” c’avevano abituati a sorprendere con arrangiamenti davvero inusuali.

Un’ulteriore stranezza era dovuta al fatto che ogni brano era persino accompagnato da un sottotitolo, spesso non in linea col titolo stesso, ma più spesso una frase che si ritrovava all’interno della canzone in questione. Non solo, il titolo dell’intero album si prestò da subito a diverse interpretazioni, la più accreditata la vedeva come una presa in giro al Presidente degli Stati Uniti George Bush, accolto con la marcia “Hail To the Chief” dagli attivisti americani in campagna elettorale. Anche “Hail To the Thief” aveva in “The Gloaming” il suo sottotitolo, o titolo alternativo che dir si voglia, poi utilizzato tra l’altro anche per una delle tracce più sperimentali ed elettroniche del disco.

Registrato e prodotto ancora una volta con Nigel Godrich, grande artefice del cambio del sound del gruppo e quasi un membro aggiunto per il legame ormai instaurato, al primo ascolto è stato in grado di mettere d’accordo critica e pubblico. E’ un album davvero ricco di sfumature, umori, suoni, canzoni (ben 14), oltre che quello dalla maggior durata, visto che si sfiora l’ora complessiva.

Un brano come “2+2=5” in apertura è la dimostrazione che veramente i Radiohead non si sono smarcati dal rock generalmente definito “alternativo”: è assolutamente rock, chitarristico, tirato come potevano essere alcuni episodi di “The Bends” e “Ok Computer” e a livello testuale è evidente il richiamo alla straordinaria opera letteraria di Orwell “1984”.

Che le atmosfere siano destinate ad essere mutevoli, cangianti, lo si nota dalla seconda traccia, una lenta, onirica, glaciale “Sit Down, Stand Up”, capace di ipnotizzare, e dall’avvolgente, dolcissima “Sail To the Moon”, con i suoi accordi pianistici e il volo pindarico della seconda parte, anche se non mancano cenni politici.

Con “Backdrifts”, quella mai eseguita nei live prima dell’uscita del disco, si ritorna in territori decisamente ambient, con la drum machine a dettare la linea, una di quelle canzoni concepite prima con campionatori e loop su cui si è sviluppata poi l’idea finale.

“Go To Sleep” è sicuramente più accessibile, con le chitarre in primo piano, il cantato declamatorio (anche se a conti fatti, al di là  dello scenario apocalittico evocato, i versi di Yorke appaiono quanto mai criptici) e l’efficace melodia.

La successiva “Where I End and You Begin” scorre via senza particolari guizzi emotivi, sembrerebbe quasi un riempitivo, anche se non lo è di certo. Allora diciamo che è generalmente una bella canzone (fosse stata incisa da una qualsiasi altra band) ma abituati alla qualità  compositiva ed espressiva dei Radiohead mi risulta tra i loro episodi meno riusciti.

Un’altra canzone che potremmo definire un ibrido tra le varie istanze musicali dei Nostri è “We Suck Young Blood” che assume però notevole rilievo per i suoi versi “allucinati”. Tornano un po’ gli incubi presenti nel “paranoide androide” di qualche anno prima.

“The Gloaming” non è solo la canzone che, come detto, fa da titolo alternativo all’intero disco ma secondo Thom Yorke era perfetta proprio come titolo principale, per quanto trasmette e significa. Il crepuscolo indicato nel titolo è proprio quella della società  in cui stiamo vivendo, è quello dell’uomo, sempre più spersonalizzato. A livello musicale non avrebbe sfigurato nel futuristico “Kid A” e dal vivo si dimostrerà  essere uno dei brani preferiti del pubblico.

Si arriva così a “There, There”, canzone scelta come singolo per rappresentare l’intero lavoro. Beh, direi che il suo compito all’epoca lo svolse egregiamente, almeno per il sottoscritto, visto che rimane una delle mie preferite dei Radiohead. Le percussioni introduttive sono incalzanti, fremono e conferiscono un ritmo quasi tribale, fatto pressochè inedito nella carriera della band, via via altri elementi si aggiungono e nel picco emotivo subentrano le chitarre roboanti, minacciose a dir poco, a mutare del tutto il mood del brano.

“I Will” è una mesta dichiarazione d’intenti, piuttosto lineare, una sorella minore della struggente “Exit Music (For a Film)”, fra i brani di punta di “Ok Computer”; molto più interessanti appaiono una “A Punch Up At a Wedding” dai toni dissacranti e la schizofrenica “Myxomatosis”.

Il disco, dopo tante oscurità  e cupezze, specie trapelate dai pensieri di Yorke, si chiude all’insegna della dolce ma rassegnata malinconia di “Scatterbrain” e delle drammatiche, lancinanti, tormentate immagini che compongono l’atto di dolore chiamato “A Wolf At the Door”, a mio avviso il capolavoro del disco.

Una canzone in cui l’estro di Jonny Greenwood, da vari dischi non più solo chitarrista e polistrumentista ma vero e proprio genio musicale, si sbizzarrisce a declinare le angosce di Yorke, rivestendo il brano con synth, trombe, organetto e strumenti a corda.

Non si tratterà  certo del picco creativo di una band assolutamente straordinaria, preponderante non solo nel suo tempo ma dell’intera epopea musicale pop rock quali sono i Radiohead, ma “Hail To the Thief” è ancora adesso un manifesto forte, credibile e integro della loro produzione artistica.

Radiohead ““ “Hail To the Thief”

Data di pubblicazione:  9 Giugno 2003
Tracce:  14
Lunghezza:  56:37
Etichetta: Parlophone
Produttori:  Nigel Godrich

  1. 2 + 2=5. (The Lukewarm.)
  2. Sit down. Stand up. (Snakes & Ladders.)
  3. Sail to the Moon. (Brush the Cobwebs out of the Sky.)
  4. (Honeymoon is Over.)
  5. Go To Sleep (Little Man being Erased.)
  6. Where I End and You Begin. (The Sky is Falling in.)
  7. We Suck Young Blood. (Your Time is up.)
  8. The Gloaming. (Softly Open our Mouths in the Cold.)
  9. There, There (The Boney King of Nowhere.)
  10. I Will. (No man’s Land.)
  11. A Punchup at a Wedding. (No no no no no no no no.)
  12. (Judge, Jury & Executioner.)
  13. (As Dead as Leaves.)
  14. A Wolf at the Door. (It Girl. Rag Doll.)