Gli Hives rompono un silenzio lungo undici anni con le dodici canzoni di “The Death Of Randy Fitzsimmons”. Un album che, nonostante gli esperimenti stilistici che hanno sempre caratterizzato la produzione più recente della band svedese, non ci riserva sorprese scioccanti ma ci rassicura con la potenza salvifica della nostalgia, riportandoci dritti dritti agli anni d’oro del revival garage rock di inizio millennio.

Credit: Ebru Yildiz

Periodo memorabile quello in cui gruppi come The Vines, The Von Bondies, Electric Six, The (International) Noise Conspiracy e Black Rebel Motorcycle Club sembravano destinati a dominare il mondo.

Alcuni di questi hanno avuto carriere brillanti. Altri, invece, ce li siamo persi per strada. Ma gli Hives, nonostante l’interminabile sosta discografica, hanno continuato imperterriti ad andare avanti e a macinare live. Superando anche le sfide più difficili, come l’addio nel 2013 del bassista di lungo corso Dr. Matt Destruction (sostituito da The Johan and Only, nome d’arte di Johan Gustafsson) e la morte del misterioso Randy Fitzsimmons, sesto membro non ufficiale e autore di tutti i brani mai registrati dal gruppo.

Il fatto che tale Fitzsimmons sia in realtà un personaggio totalmente inventato non conta nulla. Il suo trapasso può significare solo una cosa per gli Hives: un nuovo capitolo di una storia iniziata nell’ormai lontano 1993. Dopo la tragedia, la rinascita. Ma una rinascita “soft”.

Come già detto, infatti, non c’è stata alcuna rivoluzione nel sound e nello stile della band. Howlin’ Pelle Almqvist e compagni sembrano fermi al 2002 con il loro look inconfondibile, la spiccata e irresistibile ironia e la forza di un garage rock dirompente ma dai forti connotati melodici, a metà strada tra il punk e il pop d’antan.

Gli estimatori degli Hives più “classici” non resteranno delusi da “The Death Of Randy Fitzsimmons”. Soprattutto per quanto riguarda le tre tracce poste in apertura: “Bogus Operandi”, “Trapdoor Solution” e “Countdown To Shutdown” sono delle vere e proprie mine. Devastanti e al tempo stesso divertenti, come il garage punk più ruspante ed energico dovrebbe sempre essere.

Con la tenebrosa “Rigor Mortis Radio” il disco inizia a farsi più lento, complesso e raffinato, con l’ingresso in scena di strumenti atipici (i fiati in “Stick Up” e “The Way The Story Goes”, la drum machine e i synth in una “What Did I Ever Do To You?” dai toni lounge) e una certa attenzione per le atmosfere vintage, figlie del miglior pop rock anni ’60 e ’70, che prendono il sopravvento sull’impatto bruciante del garage.

Nei brani appena presentati, così come in “Smoke & Mirrors” e “Two Kinds Of Trouble”, si avverte un certo desiderio di evoluzione da parte degli Hives. Una ritrovata maturità dopo un silenzio che sembrava destinato a durare in eterno. Nulla da obiettare, perché il disco gira benissimo così com’è. L’alternarsi tra pezzi più o meno energici dà respiro a un lavoro che esplora in lungo e in largo le potenzialità del garage rock “hivesiano”.

Personalmente però li preferisco quando vanno dritti al punto, mettendo in primo piano i riff e le chitarre di Nicholaus Arson e Vigilante Carlstroem. Quindi consiglio fortemente l’ascolto delle prime tre canzoni in scaletta e delle altrettanto spettacolari “The Bomb” e “Step Out Of The Way”. Non che l’album deluda nel complesso, ma forse la totale assenza di sorprese un pochino pesa. Era davvero necessario aspettare più di un decennio per un disco non troppo differente dalla precedente produzione?