Diremmo quasi inaspettato questo decimo LP dei National, che arriva a sorpresa dopo nemmeno cinque mesi dall’uscita del precedente, “First Two Pages Of Frankenstein“, di cui utilizza anche la stessa foto in copertina (anche se qui lo sfondo è differente rispetto all’altro disco).

Credit: Graham MacIndoe

Nato durante le stesse sessioni del suo predecessore, l’album viene definito dalla stessa band originaria dell’Ohio come il loro più collaborativo, dopo aver ritrovato fiducia e sintonia con “First Two Pages Of Frankenstein”: le canzoni, però, come abbiamo potuto sentire, sia dal vivo (per chi è stato fortunato da partecipare a un loro concerto) che nei filmati live in rete, sono state spesso provate prima durante i loro live-show e questo ha permesso a Matt Berninger e compagni di poterle ricostruire e registrare nuovamente, dando loro maggiore forza e qualità.

Sono ben nove le canzoni a cui è stato dato un nuovo volto – durante una sessione lo scorso maggio presso lo studio di Tucker Martine (Laura Veirs, The Decemberists, Modest Mouse, My Morning Jacket) a Portland.

Anche gli ospiti sono numerosi e importanti come Justin Vernon, Phoebe Bridgers e Rosanne Cash, ma sfogliando meglio i credit troviamo anche altri nomi a noi famigliari quali Thomas Bartlett, Mina Tindle, Benjamin Lanz e Lisa Hannigan, solo per citare i più noti.

Con tutte queste frecce da poter sparare diventa davvero difficile sbagliare il colpo e, entrando immediatamente dentro al clima di “Laugh Track”, troviamo la già nota “Alphabet City”, uno dei due singoli (insieme a “Space Invader”) condivisi ad agosto: c’è un intelligente uso dell’elettronica – sia synth che elementi percussivi – che, insieme a violini e piano, servono per creare una fantastica atmosfera che lascia spazio alla languida e profonda voce di Matt Berninger per portare emotività al pezzo, pur sotto forma di malinconia.

Facciamo appena un passo avanti e troviamo “Deep End (Paul’s In Pieces)”: oltre alla sua leggerezza, alla sua naturalezza e alle sue splendide melodie disegnate dai passionali vocals del frontman, qui ritroviamo con piacere un drumming decisamente intenso, in cui Bryan Devendorf ha la possibilità di esprimersi al meglio (a noi torna in mente la stessa energia percussiva di “Don’t Swallow The Cap” e soprattutto di “Mr November”), dopo che nel lavoro precedente erano state spesso usate le drum-machine.

La bellezza continua – c’è poco da dire, ma solo lasciarsi emozionare sempre di più – anche con “Weird Goodbys”, pezzo già pubblicato nell’estate dello scorso anno: la partecipazione di Justin Vernon (aka Bon Iver), che duetta con Matt prima e poi non fa fatica ad armonizzare con lui tra il suono magico di synth, violini e piano, ci fa venire la pelle d’oca, talmente il risultato è toccante e confortante.

Posta giusto in mezzo all’album ecco la title-track “Laugh Track”, che vede la partecipazione di Phoebe Bridgers, già protagonista in due canzoni anche nel disco precedente: un altro duro colpo al cuore a cui è davvero impossibile resistere (gli inglesi probabilmente la descriverebbero come “an heartmelting track”). Il brano risulta più luminoso di altri presenti su questo LP: ci sono drum-machine, piano, violini, chitarre, fiati, ma soprattutto un’atmosfera che ancora una volta mette i brividi – lo continuiamo a ripetere, ma è difficile pensare in maniera diversa – e, quando le voci di Berninger e della talentuosa songwriter californiana vanno a unirsi, tutto quello che li circonda diventa magico e unico e sembra che il mondo si voglia fermare per un momento solo per tendere le orecchie verso tutta questa bellezza, lasciandosi indietro tutto il dolore che ci sta circondando.

Non è da meno anche il lunghissimo già citato singolo “Space Invader”, quasi sette minuti di continua crescita sia a livello emotivo che strumentale e, in particolare nella parte finale del brano, il lavoro di Bryan dietro al suo drumkit si fa sempre più energico e vitale all’interno dell’economia del loro suono.

Costruito a Vancouver lo scorso giugno durante un soundcheck, “Smoke Detector”, che dura quasi otto minuti, ci sorprende e lo fa anche questa volta in positivo perché vede i National strizzare l’occhio verso un suono più sporco e rock: l’energia delle rumorose chitarre dei fratelli Dessner, lasciate totalmente libere di agire, un poderoso drumming da parte di Bryan, ma anche e soprattutto la voce di Berninger che si trasforma da un simil spoken-word a un tono decisamente melodico e confortante, prima di tornare ancora a una follia noisy, rendono il brano qualcosa di speciale, di diverso e di assolutamente interessante.

Un decimo album profondo e intenso sotto il profilo dei sentimenti che sa trasformare le sue emozioni in qualcosa di ricco, elegante e pieno di atmosfere uniche e dalla rara bellezza: un altro centro pieno per il gruppo nativo dell’Ohio.