Si respira ancora una volta una sensazione di eterna beata incompiutezza nel nuovo terzo album del trio di Brooklyn, alle prese con una tutt’altro che sconosciuta disciplina, probabilmente la difficoltà ad essere coerenti con l’universo immaturo e per definizione incompiuto della giovinezza.

Credit: Shervin Lainez

“Strange disciple” pertanto non sorprende ma conferma quanto di buono i Nation of Language ci avevano fatto conoscere sin qui, servendoci un piatto di gradevoli canzoni, che non fanno fare il salto di qualità che rimane ancora inatteso e forse solo rinviato o forse chissà anche improbabile, visto il tono e i riferimenti immutati dell’album, che rimane totalmente nelle corde di un atmosfera primi anni 80: non ci si discosta per capirsi da un livello di revival del new romantic dei new romantic, pantaloni con pence e ciuffetto che neanche Jim Kerr in “Love song”, una voce prestata alla musica di Ian Devaney che rimane simile a sè stessa per tutto l’album in questa sua solitaria prova interpretativa, a tratti indolente e monocorde da diventare uno dei punti di maggiore identificazione della band, capace di rendere invece con il suo non entusiasmante timbro una parvenza di solido attaccamento emotivo ai brani.

Ci sono poi alcuni movimenti a latere rispetto al synth pop tout court fin qui esibito dai tre, che rilanciano atmosfere slow core in “Swimming in the shallow sea”, nervosismo primi Blondie in “Surely I can’t wait”, ritmi da Joy Division tirati in “Stumbling Still”, mentre rimangono per fortuna il marchio di fabbrica in episodi come l’hit “Too Much Enough” e l’iniziale “Weak in your light”.

In generale, si avverte una maggiore cura nella composizione dei brani, pur rimananendo dentro canoni molto battuti ed esplorati da un pletora di gruppi similari, ma è sempre un piacere che non trova rimedio nè termine l’ascolto di queste band alla prova del nuovo passaggio della loro synthetica evoluzione; certo, la prossima vota magari si cresce ancora un pochino e magari si cambia l’esecutore dell’art work, che nella copertina di “Strange Disciple” raggiunge vette di elevata inadeguatezza, per usare un eufemismo.