Dopo tre anni dall’album sperimentale “The Ascension”, Sufjan Stevens ci riporta nella sua intimità cantautoriale con un disco genuino che porta in equilibrio passato e futuro.

Credit: Sufjan Stevens

In un grande calderone di tantissime produzioni, di rumori e di suoni certe volte buttati a caso, è giusto cercare una stanza che ti riporti alla tranquillità tanto ricercata e quasi spesso mai trovata. La stanza, in questo momento, è quella dove Sufjan Stevens ha dato vita ad un lavoro di un’onestà commovente che riesce a far zittire anche le grandi produzioni tanto caotiche.

“Javelin” ci riporta molto indietro, in un periodo dove l’artista preferiva mostrare la sua parte più vulnerabile e delicata attraverso delle musiche cariche di significato. In effetti già dal primo singolo, “So You Are Tired”, il sound ci fa tornare a “Carrie & Lowell” ovvero l’album del successo e che ha dato poi il via alla sua lunga e variegata carriera. Le parole, che si rifanno alla rottura di una relazione, sono spiazzanti ed intrise di nostalgia e risentimento.

Questo nuovo progetto, però, non è solo un ritorno alle origini ma anche un giusto bilanciamento con le sperimentazioni del dopo. Sto parlando di quel lato elettronico, appunto sperimentale a tratti, che ha toccato in svariati punti del suo percorso. Già alla prima canzone, “Goodbye Evergreen”, riusciamo a sentire come il doppio passato venga equilibrato perfettamente: un intro sofferto e fatto solo di voce e pianoforte che poi si apre ad una voce in background ed esplode, infine, con una base perfettamente elettronica fatta di synth, drum machine e campionamenti. E questa commistione così equilibrata si ritrova nel secondo singolo rilasciato, “Will Anybody Ever Love Me?”, con un’apertura molto delicata tra una classica e un pianoforte per arrivare ad una base di accompagnamento campionata perfettamente mischiata.

“Genuflecting Ghost” e “My Red Little Fox” lasciano più spazio all’aspetto del cantautorato, immerso in un’atmosfera quasi fiabesca, che lascia la sua sezione di elettronica relegata, in questi due casi, nella parte finale. La (quasi) title track dell’album, “Javelin (To Have And To Hold)” è quasi un intermezzo di voce e chitarra con un accompagnamento di archi vibranti che ci portano in un crescendo al coro finale che si aggiunge al timbro delicato di Stevens.

Questo album ha visto una grande collaborazione ovvero quella di Bryce Dessner, chitarrista del gruppo The National, sia alla chitarra acustica sia a quella elettrica. Il featuring è molto caratterizzato dalla presenza ed influenza di quest’ultimo in termini strumentali e di suono, ricordandoci molto il sound della band. In “Shit Talk”, I don’t wanna fight at all, I will always love you è il bellissimo messaggio d’amore che si apre a metà canzone, della durata di otto minuti, cantato non solo da Sufjan ma da tutto il coro che lo segue fin dall’inizio del pezzo. Il brano finale dal titolo “There’s A World” è la giusta fine per questo delicato album: la cover di Neil Young, dall’album “Harvest”, viene reinterpretata alla sua maniera rendendo la canzone una bellissima poesia abilmente arrangiata.

“Javelin” è stato creato e prodotto nella casa dello stesso Sufjan Stevens. Una grande stanza intima e rilassata gremita, comunque, dagli amici di sempre Adrienne Maree Brown, Hannah Cohen, Pauline Delassus, Megan Lui e Nedelle Torrisi. L’idea è stata quella di ricreare lo stesso sentimento degli studi di registrazione anni ’70 di Los Angeles.

Questo album è un bellissimo equilibrio tra un doppio passato ed un futuro ben segnato dalla strabiliante abilità del cantautore di creare un ponte tra il sentimentalismo personale e quello universale. Il ritorno a certi suoni più classici, e che lo hanno contraddistinto tantissimo, ben incastrati con il suo lato più contemporaneo, fanno di questo ultimo lavoro non un banale ritorno alla forma più facile ma una completa e bellissima resurrezione.