Disco nuovo anche per Taylor Kirk alias Timber Timbre, che risulta essere, ormai, l’unico titolare del moniker in questione.

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Tra le altre, torna anche in tour nel nostro paese, dopo l’ultima apparizione in solitaria prima (almeno per quanto riguarda la data milanese alla Triennale), di Agnes Obel nell’estate del 2022.

Lui lo conosciamo bene, è sicuramente un piccolo fuoriclasse dell’indie moderno, capace di pubblicare sottobraccio dischi importanti e infatti non mancano gli estimatori, la sua scrittura calda ed avvolgente, marchio di fabbrica lo ha portato lontano, tenendo ben presente il dogma, quel l’imperativo del nessun compromesso sul piatto delle scelte, anche a discapito di un risultato di più ampio respiro, che, probabilmente, avrebbe potuto raggiungere, ma la dignità musicale vince sopra ogni cosa.

Quindi il disco nuovo “Lovage”, bello come sempre, non è altro che la continuazione di ciò che è stato fatto finora, ci conferma un artista sempre presente e pronto ad offrire un songwriting limpido e di qualità, anche perché, possiamo girarci intorno, ma quando fai fondamentalmente canzoni e ti affidi alla buona e salutare melodia di fondo, se queste canzoni appunto non fossero belle, rimarresti lontano dall’aver centrato l’obiettivo.

Tornando al disco troviamo Taylor Kirk, rinnovato, ma fedele a se stesso e l’assenza dalla discografia per un periodo abbastanza dilatato, sei anni per la precisione, gli ha permesso di ricaricare le pile, per trovare, quindi, nuovi spunti.

La brillante “Ask The Community”, uscita già da un paio di mesi, che apre la tracklist, ci riporta a casa, tutto è familiare come sempre, con un beat sussurrato in sottofondo e la delicatezza di un piccolo racconto, mentre “Sugar Land” è il secondo singolo pubblicato con un video in animazione da linguaggio moderno, un classico da repertorio, che troverà sicuramente spazio anche nelle setlist di domani, sono melodie calde ed appassionanti e dico: come si fa a non volergli bene?

La claustrofobica “Stops”, folk onirico in chiave ballad, struggente e senza tempo. o perché no l’esperimento di “800 Prisitine Corpses” strumentale lo-fi al piano elettrico, lasciano il segno.

“Holy Motors”, l’America che ti coccola in forma canzone, tra rumorismi di fondo e note cullanti, forse l’episodio più significativo di tutto l’album, chiude una title track ancora più soffusa e sussurrata.

Disco, di fatto, prodotto e realizzato in solitaria, per la Hot Dreams Records, label di famiglia, che prende il nome da quel disco uscito quasi dieci anni fa.

Il tutto per dare man forte ad un bel lavoro che conferma la regola, otto piccole canzoni di cui ne avevamo, certamente, bisogno. Bentornato.