E alla fine si sono omologati pure i The Struts. “Pretty Vicious” – quarto capitolo della storia discografica della band inglese – strizza decisamente l’occhio alle sonorità più radio-friendly, perdendo, de facto, tutta quell’imprevedibile spontaneità che aveva posto il gruppo di Luke Spiller tra i nomi più interessanti della scena alternative mondiale. Non ce ne vogliano gli autori di “Could Have Been Me”, ma la sensazione che rimane dopo aver ascoltato (più volte) “Pretty Vicious”, è quella un po’ amarognola dell’occasione persa.

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Negli undici brani che compongono la tracklist, infatti, non vi è nulla di neanche lontanamente paragonabile alla magia “scanzonata” di dischi quali “Everybody Wants” e “Young & Dangerous”. Persino in “Strange Days”, penultimo album della band, pur non raggiungendo i picchi dei due lavori appena citati, i nostri erano riusciti a mantenere comunque alta l’asticella qualitativa. Non bastano di certo due riff di chitarra, piazzati in maniera abbastanza random, e dei suoni più “puliti”, a salvare baracca e burattini.

Neanche l’oggettiva bellezza della title-track. Obiettivamente una delle (poche) tracce degne di nota di un disco che gira a vuoto, provando ad inseguire le mode (più popettare) del momento. “Hands On Me”, per esempio, potrebbe comparire in uno degli ultimi album degli Imagine Dragons e nessuno se ne accorgerebbe. Lo stesso discorso vale anche per la vacuità creativa di “Rockstar”, mentre in “Do What You Want” sembra quasi di ascoltare una b-side dei californiani Dirty Honey. Ed il fantasma di Dan Reynolds torna ad affacciarsi pericolosamente pure nella (telefonatissima) ballatona, “Bad Decisions”, uno dei pezzi meno ispirati di tutta la carriera dei The Struts (e per questo, probabilmente, futuro successo radiofonico).

Ci si divincola un po’ dalle sabbie mobili del già sentito attraverso i coretti e la melodia old school di “Better Love”. Si tratta, però, di un lampo. Dell’unico colpo di reni di una band che ha sacrificato la propria identità sonora sull’altare del “Dio Consenso”. Più che alla (per nulla lodevole) intenzione di scimmiottare gli Stones, “Remember The Name” si affaccia goffamente dalle parti del Robbie Williams di metà Anni Zero (“Spread Your Wings”, “Do You Mind”).

Dispiace enormemente sottolinearlo, ma “Pretty Vicious”, almeno per chi scrive, è un disco che non raggiunge la sufficienza. Sebbene in alcuni episodi del passato fossero stati tacciati di assomigliare un po’ troppo ai Queen, i The Struts avevano quasi sempre brillato di luce propria, riuscendo a mantenere una certa originalità di fondo. Il loro era un pop-rock fuori dagli schemi, che pur prendendo (inevitabilmente) spunto dalla “Hall Of Fame” del mainstream musicale – soprattutto quello di matrice Seventies – aveva permesso a Spiller e soci di maramaldeggiare sul resto della compagnia.

Al contrario, i The Struts di “Pretty Vicious”, appaiono come la versione edulcorata e standardizzata di quegli outsider che tanto avevano entusiasmato gli addetti ai lavori ai tempi di “Kiss This”. L’effetto del nuovo album su chi li ha stimati sin dalla prima ora è alquanto straniante. Un po’ come se Axl Rose si presentasse in giacca e cravatta al prossimo concerto dei Guns e si mettesse a intonare un pezzo dei Maroon 5.