Per quelli della mia generazione, la X, è impossibile non amare Antonio Albanese: ci ha fatto ridere come matti ed è una persona intelligente. Negli ultimi anni si è dato al cinema civile e continua a farsi apprezzare. Ad esempio, “Grazie Ragazzi” del 2022 è un remake bellissimo e che vi consiglio caldamente, ma – appunto – non è un’opera originale e Albanese non ne è il regista. Anzi,
andando a vedere “Cento Domeniche”, avevo dimenticato che i precedenti lungometraggi da lui diretti non mi erano tanto piaciuti. E anche stavolta sono uscito soddisfatto solo in parte.

Albanese è il protagonista di una storia che narra di vicende davvero accadute da noi, sia pur in contesti diversi: clienti di istituti di credito, che si sono fidati e hanno firmato ad occhi chiusi la propria rovina, convinti della buona fede dei gestori del loro denaro. Antonio Riva (Antonio Albanese) è un operaio prepensionato che si presenta ancora in fabbrica ad insegnare il mestiere ai nuovi. Il momento in cui viene invitato a non tornare più, in seguito ad una ispezione, è l’unico in cui l’integerrimo Riva sembra aver fatto qualcosa di male, “all’italiana”, perché prendeva un po’ di soldi in nero per fare il tutor. Nel resto del film, Antonio sarà un martire incolpevole. Sì, perché anche l’essere divorziato e avere un’amante sposata non sono situazioni che lo mettono in cattiva luce: è in buoni rapporti con l’ex e – se potesse – intreccerebbe una relazione seria con la donna attuale; ma lei, invece, vuole solamente divertirsi. E’ un uomo con dei solidi principi: la figlia sta per sposarsi e la tradizione esige che il padre copra i costi del matrimonio. Antonio è ben felice di provvedere, perché giocava alla sposa con la figlia Emilia già quand’era bambina e – in fondo – lui
ha messo via una bella cifra nella sua vita. Così va all’unica banca del paese lacustre per prelevare dal conto trentamila euro o poco più, ma il direttore – con un’espressione fin troppo rivelatrice per lo spettatore – gli consiglia invece di fare un prestito con una finanziaria, per non disinvestire le sue azioni in “piena corsa”. Antonio è spiazzato, in primis perché non sapeva di possedere azioni, ma la sua fiducia granitica non viene scalfita: “Mi hanno dato un buon consiglio” dice uscendo ad un giovane impiegato. E, d’altronde,
in paese la banca è conosciuta come “il confessionale”: tutti sanno i segreti di tutti; impossibile farsi del male a vicenda.

Da lì in poi ogni cosa prosegue fino all’epilogo su un piano sempre più inclinato. Antonio ha avuto eccessiva fiducia in un sistema che pensava non potesse esser altro che virtuoso, ha ignorato testardamente molti segnali fin troppo chiari. Viene lasciato solo ma non da tutti: e anche se la figlia e l’ex sono disposte ad aiutarlo, lui ormai è totalmente schiacciato dal senso di colpa per la propria ingenuità, per aver perso tutto, per aver fatto la stessa fine dell’amico – ora all’ospedale in preda all’ansia – che sottolinea di aver lavorato cento domeniche per sistemare la casa. Possiamo dire che Albanese in questo film è lo stesso uomo d’acqua dolce degli esordi, ma il cui ingresso in una realtà spietata è per lui inaccettabile.

I problemi di questo film, come per altri dell’Albanese regista, sono l’eccessiva ricerca di linearità, coerenza e perfezione. Si esce dal cinema con l’amaro in bocca e con la sensazione di avere visto un documentario, piuttosto che un film. Non per nulla le scene in fabbrica sono girate nel luogo dove Albanese ha davvero lavorato da ragazzo. Regia e fotografia sono estremamente asciutte, iperrealistiche: in molti momenti mi è parso di vedere uno di quei film drammatici francesi degli anni a cavallo del 2000. E poi la trama è troppo scontata: la vicenda di riferimento è nota in Italia e i comportamenti dei protagonisti sono prevedibili e palesi per lo spettatore. Si capisce tutto con molto anticipo, anche il finale, per forza di cose più spinto rispetto alla realtà nostrana dei crack bancari. Albanese è didascalico, concentrato nel far bene il compito e a spiegare i particolari. Ed essendo pure l’attore protagonista del proprio film, invade la scena con i suoi eccessi di empatia e rispetto del prossimo. I silenzi cinematografici – paradossalmente i più esplicativi – sono quelli della madre con cui vive, affetta da demenza. Ecco, penso che l’Albanese regista debba lasciare più spazio al cinema e meno alla presentazione dettagliata.

Antonio, ti aspettiamo e ti vogliamo sempre bene!