Credit: Michele Brigante Sanseverino

Noi siamo fatti di rumore, di parole, di sudore e, a volte, anche di lacrime.

La morte, in fondo, non è nulla, è come essere da qualche altra parte, magari in un’altra stanza, al di là di un muro che, però, non può impedire ai respiri, ai ricordi, ai versi, alle canzoni, all’amore puro, ai fatti che si trasformano in significati preziosi ed immateriali, di passare oltre ed arrivare, in una forma più purificata, fino a noi. Una forma di comunicazione profonda, a cui i Sick Tamburo donano una consistenza veloce, tesa e punkeggiante, capace di vincere lo strazio della perdita, il peso dell’assenza, il fardello della memoria, e diventare l’appiglio cui aggrapparsi nel mare agitato del nostro claustrofobico e bellicoso presente.

L’ambiente post-industriale del club di Baronissi appare la location ideale per mettere in evidenza tutte le contraddizioni del nostro tempo, abbiamo una tecnologia sempre più penetrante e potente, ma divoriamo, letteralmente, il nostro pianeta e ci stiamo seppellendo vivi sotto i nostri stessi scarti, i nostri abusi ed i nostri rifiuti. Incapaci di far fronte comune alle avversità, preferiamo essere distruttivi e dissonanti, preferiamo competere e combatterci in ogni istante, in ogni luogo, in ogni modo: politico, economico, sociale o religioso, per arrivare, alla fine, alle armi, ai missili, alle bombe. Non sappiamo più parlare, non vogliamo più parlare, ascoltiamo solamente i nostri stessi pensieri – ossessivi, cacofonici, ripetitivi, ostili ed assordanti – ma siamo davvero sicuri che questi pensieri siano, davvero, i nostri?  

Cosa c’è dietro le nostre maschere? Il nostro sguardo, le nostre domande, i nostri bisogni affettivi, le nostre danze notturne, riescono, ancora, a mettere a disagio qualcuno? O saremo sempre noi, e soltanto noi, quelli che tremano, quelli che temono, quelli che cadono, affidando le proprie preghiere laiche a chi non c’è più, al contatto fisico di corpi che si agitano davanti ad un palco, ad un bancone di un bar, ad un domani che vorremmo bruciasse d’amore, ma poi, irrimediabilmente, presi dalle asfissie quotidiane, l’indomani dimentichiamo tutto e le nostre scelte e le nostre azioni si trasformano, ancora una volta, nell’ennesima pagina di un libro di sofferenza, di dolore, di privazioni, di disturbi mentali e di morte.

Sick Tamburo affonda le sue radici negli anni Novanta, le sonorità sono quelle di un accattivante, ballabile e romantico punk-rock, ma il suo cuore batte, è vivo e pulsante, vaga di fiore in fiore, attraversa le tossiche periferie urbane delle nostre città, cerca riparo tra le ombre della notte, nel calore obliquo dei dance-floor, senza alcuna paura del buio, dei tunnel dell’anima o dei cimiteri solitari di promesse spezzate, perché, alla fine, sa che ritroverà tutto quello che ha smarrito, lassù, su una pacifica ed amorevole Luna.