credit: Maurizio Greco

“Catartica”, all’epoca, creò una connessione emotiva con una scena musicale distorta, cruda, ossessiva e rumorosa che non aveva mai intaccato, prima d’allora, nel Bel Paese. L’album tracciò, infatti, un sentiero, tortuoso, difficile ed ostico, che, però, altri avrebbero deciso di percorrere e che ci conduce, ancora una volta – come se non fossero trascorsi trent’anni – ad incontrare quelle sonorità viscerali, potenti, pure e spigolose, che restano, comunque, lontane, anni luce, da ciò che, anche oggi, viene proposto alle persone, dai vecchi e dai nuovi media, fingendo di non accorgersi del baratro nel quale il mondo reale sta sprofondando.

Certo, uno show incentrato su questo disco, su atmosfere noise-rock che appartengono agli anni Novanta, ma che, nonostante i giorni trascorsi, restano vivide, lucide e combattive, può assumere i contorni di un sogno ad occhi aperti, di un deja vu che, senza eccessivi ed inutili appesantimenti scenici, ci riporta ad una dimensione d’amore e di passione, di lotta e di impegno, che scopriamo essere ancora presente dentro di noi, perché, in fondo, indipendentemente dall’età, dalle aspirazioni, dai ricordi e dalle esperienze accumulate, ci ritroviamo – tutti – ad affrontare il medesimo stallo virtuale, ad interagire con il medesimo sistema di potere politico ed economico, a vivere i medesimi bellicosi traumi sociali, la stessa afflizione e le stesse misere illusioni.      

La festa dei Marlene, dunque, anche all’Orion, è andata ben oltre un semplice discorso formale, ha spezzato ogni legame con la nostalgia e si è proiettata, con rabbia, verso tutto quello che abbiamo attorno, verso l’odio che provoca e produce abnorme sofferenza, ma anche verso ciò che ci fa tremare il cuore, verso quella gioia immateriale che dovrebbe essere riconosciuta come un diritto alienabile dei popoli, di tutti i popoli, non solo di quelli più ricchi o più armati.

Una gioia rumorosa, spesso cupa, che i Marlene Kuntz, nonostante gli intoppi, nonostante i passi falsi, nonostante le perdite dolorose, anche recenti, hanno sempre cercato di raggiungere ed afferrare, dapprima come un un seme gettato nel vento – nella terra di nessuno tra l’asfissiante e buonista provincia italiana e l’epica hardcore-noise-grunge americana – e, successivamente, nei brividi e nelle emozioni, che, proprio come è accaduto anche nello show romano del loro tour celebrativo, hanno trasmesso agli altri, ai vecchi ed ai giovani, a chiunque fosse ancora in grado di stupirsi, di sognare, di immaginare una narrazione estranea al torpore, tossico ed ammaliante, nel quale, troppo spesso, ci lasciamo cadere, pensando che, tutto sommato, è troppo tardi per cambiare, è troppo tardi per combattere, è troppo tardi per ascoltare qualcuno che ci sproni, invece, ad essere, semplicemente, noi stessi e a non rinunciare ai nostri difetti, alle nostre eccezioni, ai nostri vuoti da colmare, alle nostre pagine da scrivere, alla nostra preziosa individualità e alla nostra imperfetta umanità.