Un mondo distopico e completamente in balia dei suoi errori primordiali. Una gigantesca montagna da costruire scavandosi la fossa con le proprie mani. Un serpente dorato piuttosto ammaliante e minaccioso. No. Non si tratta della trama di un vecchio film di John Carpenter, ma del “concept” su cui si basa “Mountainhead”, settimo album in studio dei mancuniani Everything Everything.

Credit: Steve Gullick

Ovvero, un concentrato di indie-art-pop, elettronica, sintetizzatori e una spruzzatina di sound 80s che non guasta mai. Almeno negli ultimi anni. E così, tra una tastiera ed una chitarrina, Jonathan Higgs e compagni hanno sfornato un disco che nulla aggiunge e nulla toglie al percorso discografico compiuto sin qui dalla band inglese.

Del resto, “Cold Reactor”, primo singolo estratto dall’album in questione, aveva messo subito le cose in chiaro: gli Everything Everything sono ritornati sulle scene per provare ad alzare l’asticella qualitativa di ciò che passano i conventi (“musicali”, ça va sans dire) in questi tempi di piattume ancestrale. Un esperimento, va detto, riuscito solo a metà. Già. Perché tra le pieghe dei quattordici brani che vanno a comporre la tracklist di questo “Mountainhead”, risulta alquanto difficile – se non dannatamente ostico – tentare di districarsi tra ritornelli oltremodo evanescenti e tappeti sonori che a volte sfociano nella banalità melliflua del già sentito.

Come nel caso di “Wild Guess”, il brano che apre le danze del disco, dove un ritornello che si affaccia più dalle parti dei Coldplay glitterati che da quelle (un po’ più spoglie) dei Nostri, sottolinea sin da subito una certa vacuità di fondo. Va un po’ meglio, invece, con la seconda traccia del lotto, “The End Of The Contender”. Quest’ultima, infatti, è impregnata di evidentissimi richiami eighties che ben si sposano con l’idea primogenita del settimo album in studio degli Everything Everything; vale a dire, realizzare un’insieme di canzoni che rimandassero sia ad una cupa modernità (eufemismo) che alla cosiddetta British Invasion di cui Tim Pope (regista di videoclip memorabili) ed i Talk Talk di Mark Hollis sono stati gli alfieri principali.

Epperò, versi quali “Ti amo come una bomba atomica” farebbero cascare le braccia persino ad un tipo paziente e leggendario come il buon vecchio Giobbe. Tanto vale, allora, concentrarsi sulla marcetta zeppa di archi che risponde al nome di “TV Dog” o sull’elettronica incalzante di un pezzo come “Don’t Ask Me To Beg”. “Mountainhead”, in definitiva, è un lavoro che riesce a strappare la piena sufficienza, ma che non arriva lì dove vorrebbe (o potrebbe). Si tratta, in pratica, di un disco pieno di sfumature, nonché di saturo di dettagli compositivi, che vanno però a svolgere il ruolo di meri orpelli giammai utili alla causa.

Provando a tirare un po’ le somme, dunque, Higgs e soci hanno realizzato un album concettualmente interessante, ma che affoga le sue premesse iniziali in un oceano di idee sviluppate in maniera superficiale.  Una sorta di cilindro senza coniglio.