Con “Priscilla”, Sofia Coppola all’ennesima prova di maturità rimane ancora una specie di oggetto del desiderio per la convinta maggioranza dei suoi fan, che vorrebbero vederla trionfare in qualche festival o semplicemente prendere lo scettro della gratitudine riconosciuta, quando invece con questo film ancora una volta si affida al suo personale talento da outsider privilegiata, ricavando un’ulteriore prova autoriale indie, che accontenta i più devoti dando sempre l’impressione però di un comodo adagiarsi nell’underground di clichè.

In realtà, con “Priscilla” l’intento è già chiaro dai primi minuti, dalla splendida prima parte in cui si vienecalati in medias res nella fase della conoscenza con The King, con la macchina da presa stretta sui primi piani di Cailee Spaeny, sul suo candore immacolato, sui suoi silenzi audaci di fronte al mito, sul suo incontrollabile senso del desiderio che da quattordicenne texana di stanza in Germania, la porterà a vivere un’esperienza unica ed invidiabile fino ai 27 anni.

Questa specifica storia di un classico amore tormentato nelle intenzioni della Coppola prende da subito le sembianze della descrizione di una parabola di una donna all’inseguimento di un sogno, è la storiauniversale di tante donne che credono fortemente e giustamente che i sogni si possano realizzare, che non si staccano dal sogno dentro le burrasche, che sopportano discriminazioni, tradimenti ed umiliazioni,non facendo troppi calcoli e avendo la fiducia che si possa rimediare sempre, dandosi però quel limite, il limite della propria emancipazione, il limite dell’indipendenza, il limite del rispetto. Ecco quindi che “Priscilla” diventa un altro esempio di come la regista di “Lost in translation” riesca a tradurre unsentimento femminile immutato, con un’intensità moderna totalmente aderente con un sentire comune di genere molto profondo ed ancora vivo, senza troppo spiegare, senza troppo insistere sulle differenzeappunto di genere, attualizzando una vicenda leggendaria come una situazione, un’eventualità possibilee immaginabile per ogni donna che nei suoi pensieri voglia vivere l’entusiasmo di un amore straordinario.

In questo senso, il film non può non procedere secondo un canone molto semplice, tra le classiche inquadrature vuote ma parlanti, di impostazione orientale, con la Spaeny meritata coppa Volpi a Venezia 2024 per il modo in cui permette con il suo scarno copione di rendere chiaramente visivi i pensieri, l’immensità del caso e del desiderio di essere riuscita ad intercettare emotivamente l’uomo piùfamoso al mondo e allo stesso tempo l’estrema ma determinata naturalezza di pretendere che fosse SOLO l’uomo della sua vita.

La perfetta dimensione di una adolescente di fine anni ‘50 con un substrato culturale che vedeva nella ricerca dell’uomo dei sogni il massimo compimento per il proprio destino è in sostanza lo scopo della pellicola che Sofia Coppola riesce a tradurre al solito con il suo riconoscibile stile minimale, con pochi fatti, poche parole, poca vicenda si direbbe, il che spesso non coincide con risultati soddisfacenti. Si passa quindi dai vuoti di Graceland, oggi casa museo che la regista tratta in un switch temporale come già museo al tempo delle lunghissime giornate solitarie di Priscilla, in questo suo vagare pensieroso, cullata dal lusso e dalla bellezza di un traguardo ma sempre più insidiata dall’aridità dei sentimenti, alle belle giornate di divertimento puro con Elvis, giornate sfrenate, come se si potesse cristallizzare i momenti in cui la felicità sgorga senza tensioni o doppi sensi, alle violenze istantanee del rocker la cui fragilità e terribile ambivalenza umorale viene tratteggiata dalla Coppola solo in rare scene di violenza, in un paio di dialoghi col famoso Colonnello sulla paura del presente incerto fra tensioni ed il nuovo che arriva.

Qui forse manca una discesa agli inferi degna di questo nome, ad un certo punto la dinamica della narrazione è ripetitiva fra liti e coming back, fra momenti di delirio del Re e la faticosa opera di sopportazione di Priscilla, ma il tema per la Coppola rimane spesso nelle immagini, è lo sguardo che rende l’idea, siamo noi che adottiamo questo coming of age di Priscilla fino alla fine, nel suo outfit emancipato, nei suo boccoli, nello stringato finale che è quanto di più scontato ci aspettassimo, visto che dopo tutto non c’era molto altro da dire se non rendersi conto delle separate lifes e forse another time, another place.

“Priscilla” rimane quindi un oggetto di parte, vedi anche la non concessione delle musiche da parte dellafamiglia di Elvis, un film in cui la regia sovrasta e copre la fragilità del contenuto della narrazione, in cui contano le sensazione delle immagini delle poche vicende trattate, il senso di un abbraccio, gli sguardi invidiosi delle compagne di scuola, il mondo interiore dentro e fuori di una quattordicenne e del suo tempo, all’inseguimento di un sogno fino e oltre la sua fine.