Non ci si può aspettare una rivoluzione da una band di ultrasettantenni. Ci mancherebbe. Il tempo scorre inesorabile. Spietato. Come uno dei riffoni presenti in Painkiller (Anno di grazia 1990). Epperò, quello sfornato dai Judas Priest è uno degli album più convincenti di questa prima ondata dell’anno. Indubitabilmente.

Credit: Justin Borucki

“Invincible Shield” – questo il titolo del diciannovesimo album in studio della band di Birmingham – è un trattato heavy-metal su quella che dovrebbe essere la musica “chitarrosa” degli anni Venti e sul fuoco sacro che accompagna (ancora una volta) una delle formazioni metal più longeve e blasonate del panorama-rock mondiale. A tutto il resto, invece, ci pensano la voce iconica (ed in gran forma) del caro vecchio Rob Halford e le note sfavillanti degli undici brani (quattordici nell’edizione deluxe) che vanno a comporre la tracklist del disco in questione.

Lo “scudo invincibile” dei Judas Priest, del resto, non è altro che una squintalata di tiratissimi inni da cantare a squarciagola durante uno degli innumerevoli live portato dai Nostri in giro per il mondo. Pezzoni incendiari come “The Serpent And The King” o la stessa “Devil In Disguise” provano a mettere subito le cose in chiaro: al centro del villaggio dei Judas Priest c’è la loro cinquantennale esperienza. Poco da dire. Va da sé, com’è ovvio e fisiologico che sia, che non tutte le tracce presenti all’interno di “Invincible Shield” riescano a brillare di luce propria. Talvolta, infatti, si corre il rischio di incappare nel pallido grigiore della ripetitività. Si tratta, tuttavia, solo ed esclusivamente di meri episodi (“Trial By Fire”) che nulla tolgono e nulla aggiungono alla solida caratura dell’album.

“Panic Attack”, per esempio, è una di quelle canzoni che rappresentano il vero e proprio marchio di fabbrica dei Priest, pieno com’è di tutti quei tratti distintivi tipici che caratterizzano i brani della band britannica: ovvero, un ritornello-killer, riff corposi ed eseguiti come Dio comanda, agganci melodici che sanno di “mestiere” e leggendaria teatralità. In pratica, tutto quello che ci si aspetta da un disco di Richie Faulkner e soci. Altroché.

Ed allora, provando a tirare un po’ le somme, potremmo definire la nuova opera dei Judas Priest come il ritorno dannatamente incisivo di una formazione che non ha mai avuto timore di sciorinare le proprie peculiarità. Anche a costo di apparire piuttosto restia nell’aprirsi verso un tipo di sound new-school. Poco male. Sì, perché “Invincible Shield” ci dimostra che la grandezza ancestrale di una band come i Priest stia proprio nella complessa semplicità dei dettagli maggiormente reconditi e basilari dei loro lavori. Immergersi nel successore di “Firepower” (2018), sostanzialmente, significa ascoltare cinquantadue minuti di heavy-metal dai richiami vintage ma saldamente legato al nostro tempo.