Chi va piano va sano e lontano. Sembra essere stato questo il motto dei milanesi swan•seas. Guidato dalla sagace penna di Corrado Angelini, accompagnato da una squadra rodata e perfettamente allineata al suo credo musicale, il quartetto aveva mostrato i primi frutti musicali nel 2022, ma l’esordio è arrivato solo ora, nel maggio 2024, a conferma che non è sempre necessario fare le corse per pubblicare qualcosa il prima possibile.

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“Songs in the Key of Blue” è un vero e proprio trattato di guitar-rock, capace di attingere, in primis, a superlative trame anni ’90 inglesi, senza però dimenticare una particolare epicità e sottobosco romantico che sembrano provenire da eroi anni ’80. Un disco che è quindi un viaggio tra epoche musicali e nello stesso tempo un viaggio introspettivo che spinge l’ascoltatore tra inquieti sfondi uggiosi, mentre bagliori invitanti e armonici danzano davanti agli occhi.

L’atmosfera che respiriamo è spesso satura, avvolgente e densa, a tratti anche languida e onirica, ma non c’è mai un senso di pesantezza che ci assale, anzi, tutto è decisamente scorrevole e intrigante, con quelle chitarre sempre in primo piano, che disegnano trame ariose e melodie che emergono agilmente. La scuola shoegaze anni ’90, così come il dream-pop ’80, è conosciuta alla perfezione, ma definire gli swan•seas semplicemente un gruppo “shoegaze” sarebbe riduttivo e castrante, perché, come dicevo prima, l’epicità di certi momenti, la malinconia travolgente o l’immediatezza pop di altri fanno pensare agli Smiths così come ai Church o ai Chameleons, senza dimenticare per strada certe sensazioni figlie del britpop o un gruppo anni 2000 come i Glasvegas. Troppa roba? Impossibile non perdersi per strada? Ecco, proprio qui sta la forza di questa band che, pur all’esordio, non difetta assolutamente di autocontrollo e di idee chiare, prerogative ottimali per far volare alto questo “Songs in the Key of Blue”.

La potenza di “Frostred Glass” con quella batteria furiosa che picchia su una chitarra densa di struggimento è meraviglia pura fin dal primo passo, per non parlare di “Fuzzy Feeling”, con quel giro trovolgente che sembra abbia trovato la benedizione di san Richard Oakes. “A Line Slowly Tracing” è la conferma che anche quando abbassano i toni i ragazzi riescono a stare sul pezzo alla grande, creando una ragnatela di malinconia con l’inserimento di una misurata dose di elettronica che è perfettamente funzionale al brano.

“Ethan” è forse il momento più sbarazzino e, sulla bilancia delle sensazioni, fa da contraltare a quella morbida e paradisiaca sensazione sprigionata dai tocchi delicati di “2002”.

Su “Drop The Floor” ci sarebbe da fare un trattato per una costruzione che sembra un puzzle di meraviglie, con singoli frammenti perfetti che, incastrandosi alla perfezione, ci fanno impazzire di piacere: quella batteria iniziale quasi alla J&MC, quel giro chitarristico cristallino su cui il cantato dipana una scia che è impossibile non seguire, come se fosse il pifferaio di Hamelin ad averci in pugno. Il ritornello è talmente bello che si rimane così, senza parole e quell’effetto eco della voce a me fa gridare ogni volta che lo sento. Canzone più bella del disco senza ombra di dubbio.

La chiusura suggestiva e fluttuante di “Such A Drag”, in cui galleggiare magicamente nel vuoto, suggella il trionfo.

Un disco affascinante, una band che merita tanta, tanta attenzione e tanta stima. Bravi ragazzi.