Credit: Michele Sanseverino

Rabbia e romanticismo, furore sonoro e aperture melodiche capaci di evocare scenari e paesaggi poetici, ma anche di esprimere tutta la frustrazione, la paranoia e, soprattutto, il disagio che caratterizzano la società moderna. E quando il disagio aumenta – ce lo insegna quella Storia che, spesso, dimentichiamo, banalizziamo, ridicolizziamo e sminuiamo – il pericolo delle derive reazionarie ed autoritarie diventa, puntualmente, più concreto, più minaccioso e più pressante. 

E se ci costringono a vivere in una fossa, in una striscia, in un bunker o in un ghetto virtuale, continuamente osservati, continuamente spiati, continuamente giudicati e continuamente manipolati, può accadere, purtroppo, che i sentimenti più ostili e più negativi riescano a prendere il sopravvento. La nostra umanità è strettamente connessa ed intrecciata a quella che è la nostra libertà; la libertà a cui inneggia James McGovern quando, dal palco del Ferrara Sotto Le Stelle Festival, all’interno del meraviglioso castello Estense, stringendo tra le mani la bandiera della Palestina, si congeda dal pubblico presente e rammenta, a noi tutti, quanto, ancora oggi, in un’epoca di tanto decantato progresso e idealizzato benessere, sono tanti, troppi, i luoghi nei quali non c’è giustizia, non c’è dialogo, non c’è nessun vero confronto, ma ogni questione, ogni scelta, ogni atteggiamento, ogni singolo, dannato giorno è condizionato, unicamente, dalla violenza, dalla brutalità, dalla paura, dalla morte, dalle armi.

I Murder Capital hanno, invece, ben altro nel cuore, il filo sonoro che connette i loro due album, si espande in ogni direzione, creando quella pacifica tela di ritmiche incalzanti, di sonorità dark-rock, di vibrazioni costruttive e di accelerazioni punkeggianti, che vengono esaltate da queste antiche mura, intrise di storie e di narrazioni umane che, ormai, sono diventate leggende e che sono, contemporaneamente, anche la testimonianza reale della nostra immensa grandezza, della nostra arte, della nostra creatività, della nostra fantasia, ma anche della nostra fragilità, della nostra limitatezza e, a volte, della nostra insana follia.

Un caos che la band irlandese mostra di saper assecondare e contenere, un caos che diventa l’energia dirompente del basso e della batteria, la distorsione accattivante della chitarra, le parole che graffiano le nostre coscienze sopite, narcotizzate e spaventate, ma anche un fluire di immagini di catartica e di struggente malinconia. Ognuno ha le sue, ma la band sa come incastonarle nei propri brani, sa come renderle il ritornello, l’assolo o la frase giusta, quella che abbiamo taciuto per molto tempo e che, adesso, è il momento di far esplodere, mentre i suoni si concedono ogni possibile direzione, ogni pietra consumata dal tempo, ogni mente, ogni nervo teso, ogni muscolo palpitante, ogni ricordo, ogni sogno, ogni passione, ogni stanza, ogni silenzio, ogni salone, ogni prigione, ogni colonna, ogni antico stemma, ogni schermo luminescente, ogni speranza di dialogo, di confronto, di libertà, di duratura pace.