Qualche anno fa arrivò un album inaspettato che lasciò il segno, una band che si presentò ed eclissò alla velocità  della luce, si sciolse come quelle leggere nevicate che nei paesi affacciati sul mare facevano sperare e gioire i bambini.

Va bene lo ammetto, la partenza è sdolcinata ma ve li ricordate The Organ, certo che ve li ricordate, “Grab the Gun” arrivò come un fulmine a ciel sereno, nel quale “Steven Smith” suonava come una lettera di piacevoli intenti, un po’ Cure, un po’ Smiths in una costruzione talmente riuscita per un album di una band esordiente che lasciava stupiti.

Un esordio che faceva sperare ma che non ebbe mai un seguito causa il loro improvviso e mai spiegato scioglimento, restava a noi ascoltatori il ricordo di questa promettente band canadese che aveva saputo riprendere, senza inventare nulla, un certo sound della migliore new wave inglese e riproporlo in maniera originale e coinvolgente.

Ci provano in molti ancora oggi, tramite esercizi di stile più o meno riusciti, a mostrarsi magari non nuovi ma comunque interessanti.

Questi HighSchool mi hanno fatto venire in mente The Organ, non tanto per le somiglianze, che comunque ci sono, ma piuttosto per la capacità  delle band, che partecipano nei campionati minori, di riprendere e lavorare su un sound ampiamente assimilato e riproporlo in modo piacevole.

Gli HighSchool sono una band australiana, un continente che a volte musicalmente arriva meno ma che spesso riserva sorprese e idee, questa band si muove in una dimensione dark finendo con il pescare in band quali Joy Division o Cure ma condito con il tocco di una piacevole spezia jangle-pop. Un trio di ragazzi che si sono conosciuti sui banchi di scuola composto da  Luke Scott al basso, il front man  e chitarrista Rory Trobbiani e sua sorella Lilli alle tastiere, che riescono ad avere nel loro stile retrò una forza che si rigenera come nuova e capace di attirare l’attenzione.

“Frosting” inizia l’album come fossero i New Order in versione noise con la voce incerta di Rory Trobbiani a creare un atmosfera inquietante ma apprezzabile, seguita da “New York, Paris and London” pezzo che sicuramente rappresenta il momento che maggiormente può lasciare il segno, quasi un pezzo degli Smiths in versione dark.

“De Facto” è un altro brano riuscito, con il sempre ottimo lavoro delle tastiere e il cantato noise che si tiene in parte nascosto,   così come “Jerry ” accompagnato da un ottimo video autoprodotto, con il basso in evidenza e la loro ormai riconosciuta capacità  di dare ai brani una dimensione pop mai banale.

La chiusura di questo mini album spetta a “Forever at Last” con un inizio che ci ricorda ancora i New Order per poi prendere altre strade e con il basso e la chitarra sempre in evidenza in una costruzione  ancora una volta ben riuscita.

Questo primo lavoro degli australiani è una vera sorpresa, divertente e senza un brano da saltare, si ascolta e si canta dall’inizio alla fine, un esordio che ci fa ben sperare per il futuro e ci regala un vinile da aggiungere alla collezione.