Una notte romana inaspettatamente fresca accoglie in città  Vasco Brondi, aka Le Luci della Centrale Elettrica, venuto a portare un po’ della sua provincia e tanta della sua poesia.

Dopo l’apertura di Diodato, tocca a Brondi salire sul palcoscenico del Viteculture Festival all’ex dogana adi San Lorenzo: t shirt rossa d’ordinanza, jeans e scarponcino neri, apre il live con una serie di brani di “Terra”, il suo ultimo, meraviglioso album.
Da “Coprifuoco” al “Waltz degli scafisti”, si passa dopo qualche brano a una serie di pezzi storici, che Vasco introduce di tanto in tanto con sue esperienze e ricordi ripescati dal passato. Si apre, si confida un po’ con il suo pubblico, con il quale sta prendendo sempre più dimestichezza (anche solo rispetto al live di quest’inverno all’Atlantico, sembra decisamente più sciolto).
E senza accorgersene sono già  passate “Macbeth nella nebbia”, “La terra, l’emilia, la luna”, “Quando tornerai dall’estero”, “Cara catastrofe”, “Ti vendi bene”.
Il concerto alterna canzoni più trascinanti ad altre profondamente “spirituali”, mescola pezzi vecchi a nuovi: risuonano “Chakra” e “Qui” ma anche “I Sonic Youth” e “Le ragazze stanno bene”. Scelta vincente: gli intrecci tra album e pezzi scorrono piacevoli, rievocando sotto i nostri occhi il viaggio musicale de Le Luci, che è stato e continua a essere in ascesa.

Non sarà  un live perfetto, ma è proprio nelle piccole sbavature che ci si sente ancora più vicini, solidali ed emotivamente connessi a un artista. E poi non la sua gioia di essere lì è questa volta così tangibile da diventare travolgente: si avvicina al pubblico, scende dal palco, chiacchiera, sorride tanto, emana tanta energia positiva che non si può far altro che venirne risucchiati.

Grazie anche al sostegno musicale di prima categoria dei suoi colleghi di palco (Marco Ulcigrai alla chitarra, Matteo Bennici al basso, Giusto Correnti alla batteria e Angelo Trabace alle tastiere), Le Luci della Centrale Elettrica porta a casa uno spettacolo coinvolgente, intimo ma non in modo eccessivo, magico ma non aereo.
E nel bis finale ci dà  quelle due ultime canzoni di cui avevamo bisogno, quelle che stavamo aspettando, che forse sono le due perle dell’album: “A forma di fulmine” e “Nel profondo Veneto”. Due brani che ti si incollano addosso, e ti lasciano tornare verso casa nella notte con l’impressione di aver imparato qualcosa: non con una lezioncina leziosa e retorica, ma grazie all’umiltà  delle parole giuste, messe in fila una dietro l’altra con cura e ricerca. Di aver avuto la possibilità  di ascoltare qualcuno che aveva davvero qualcosa da dire. Che vive le tue stesse emozioni, le tue stesse fragilità  e le tue stesse angosce da comunicare e le sa declinare meglio di te. Che è il motivo, in fondo, per cui esistono gli artisti, e la musica.