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Fatto salvo che il personaggio di Eugene Hutz e la suo strabiliante ascesa da profugo a rockstar (e le infinite implicazioni e complicazioni che possono arrivare quando entra in scena Madonna a rincarare la dose) riempiono bene le pagine di ogni foglio che si voglia riempire, e fatto salvo che la musica contenuta in Super Taranta è la stessa che sta in Gypsy Punks ma un pochetto più fiacca e senza il bel bestemmione che sta su Santa Marinella, rimane poco da dire sull’ultima uscita di Gogol Bordello.


Registriamo più che altro la confluenza di una serie di fattori: da una parte il funzionamento del gruppo in sè, buono da vendere alla nazione dell’orgoglio DIY/indipendente a trance da centomila pezzi in un mercato che cercava da anni la prossima rockstar etnico/rockeggiante, un nuovo credibile manu chao insomma (di quello vecchio ne parlano in pochi ormai), dall’altra parte l’orgoglio barricadero di un certo tipo di target “folky” mutato dal puro e semplice tradizionalismo sparato a mille ad una nuova forma di cultura pop allargata in cui elementi pescati a caso da una parte e dall’altra riescono a funzionare in qualsiasi pretestuoso mix capiti davanti allo stereo.


Dal canto suo Eugene dà  l’idea di uno che se ne frega e a cui basta un pubblico non troppo folto che ne ascolti i deliri e magari due docce all’anno. Supponiamo solo, però, che Super Taranta sia già  archiviabile come “il disco dopo quello famoso” senza che quello famoso sia riuscito a tirar fuori abbastanza putiferio. Parafrasando, la data di scadenza dei fenomeni di costume nel pop contemporaneo comincia ad essere davvero corta. Di nostro, non avevamo alcun dubbio che Super Taranta avrebbe suonato così.