Esistono diversi modi per approcciarsi ad un concerto. E se col tempo ci si avvicina soprattutto per ascoltare le capacità  live del cantante o della band in questione, le qualità  tecniche e l’abilità  di reinterpretazione del proprio repertorio, in una modalità  che ovviamente non lascia possibilità  di riscatto a disastri e incapacità , come possibile invece sfruttando i trucchi e le magie proprie di uno studio di registrazione, certo è che da giovane prevale sicuramente l’entusiasmo per andare a sentire il proprio beniamino dal vivo, vederlo in carne e ossa e cantare insieme a lui canzoni amate e ascoltate fino a mandarle a memoria.
Ecco, questo è successo l’altra sera al concerto che i Port O’Brien, in arrivo dalla California, hanno dato all’interno degli spazi de La Casa 139, il circolo Arci che sicuramente più degli innumerevoli altri presenti a Milano sta proponendo nomi e voci nuove del panorama indie italiano e straniero. Ottima programmazione, appena offuscata dai limiti di capienza e dalla qualità  audio non eccelsa, ma comunque più che buona.

Di fronte ad un pubblico non numeroso ma sicuramente entusiasta e caloroso, Van Pierszalowski e compagni hanno proposto in buona parte le canzoni del loro ultimo lavoro, l’ottimo “Threadbone”. Ballate agrodolci che riescono alla perfezione a far sposare brillanti armonie vocali, come quelle portate al successo dai Fleet Foxes, con strutture ritmiche non scontate, come esplorate dai Dodos, e melodie orecchiabili e di sicura presa, come i migliori pezzi dei Band Of Horses. Nulla di sconvolgente o particolarmente innovativo, insomma, soprattutto in un periodo in cui questo tipo di sonorità  vede un fiorire di proposte simili, tutte comunque interessanti e piacevoli. Fanfarlo, Isbells, Bowerbirds, Lightining Dust, Low Anthem, tanto per citarne altri che per primi vengono in mente.
In questa traccia i Port O’Brien si inseriscono portando vitalità  e simpatia. Quattro ragazzi alle prese con una strumentazione da classico gruppo indie-rock, che si divertono e fanno divertire il loro pubblico, soddisfatti e meravigliati dell’accoglienza e dell’entusiasmo dimostrati, contenti e orgogliosi di essere giunti ‘in this beautiful country’. Ci invitano ad andarli a trovare nella loro splendida California, e si lanciano in un triste confronto a chi sia peggio governato, da una parte un certo Arnold-tutto-muscoli e dall’altra…sappiamo bene chi. Le canzoni sono pescate prevalentemente dall’ultimo album, con qualche recupero dal precedente “All We Could Do Was Sing”, come la biografica “Fisherman’s Son”, e proposte con arrangiamenti forzatamente più diretti e spartani rispetto a quelli dei dischi. Soprattutto senza la componente acustica e folk che Cambria Goodwin, assente per il tour europeo, inserisce nell’equilibrio delle canzoni con i suoi strumenti e la sua voce dolce. Nonostante questa mancanza, le grandi urla e i sonori battimani che si sono levati di continuo da un gruppetto di ragazze in prima fila ha dimostrato che canzoni e mosse del leader erano comunque molto apprezzate, fino a cantare insieme a lui le strofe e i ritornelli delle canzoni più amate (…quasi tutte, direi!) riconosciute sin dai primissimi accordi. Sul finire del concerto le fans urlanti sono state invitate a salire sul palco per cantare, insieme davvero questa volta, una di queste canzoni, la “famosa” “I Woke Up Today”, primo singolo della band nel 2007, in un simpatico coro improvvisato e totalmente folle.

Non ha senso soffermarsi sulle capacità  tecniche e vocali del gruppo, come si diceva prima. Era un concerto da prendere come una serata in cui, finalmente, si poteva vedere e sentire quel disco e quel gruppo esibirsi dal vivo davanti agli occhi, a meno di un metro dalle mani alzate in segno di gioia. Loro cresceranno, in tutti i sensi, e se saranno capaci continueranno a proporre ballate o altro, come già  hanno fatto nei tre album scritti fino ad ora, che li hanno portati, soprattutto con le azzeccate sonorità  dell’ultimo, ad una proposta che, come si è visto, si fa sicuramente apprezzare.

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