LINE UP ““ 06/08/2010:
SOUTH STAGE: BALKAN BEAT BOX, RAPHAEL SAADIQ, DEVO, HOT CHIP, LADY GAGA
BUDWEISER STAGE: WAVVES, MAVIS STAPLES, THE NEW PORNOGRAPHERS, THE BLACK KEYS, THE STROKES
PLAYSTATION STAGE: B.O.B.:, LOS AMIGOS INVISIBLES, DRIVE-BY TRUCKSER, DIRTY PROJECTORS, JIMMY CLIFF
ADIDAS STAGE: JAVELIN, THE WALKMEN, THE BIG PINK, MATT & KIM, CHROMEO
THE GROVE: FOXY SHAZAM, THE CONSTELLATIONS, AMERICAN BANG, CYMBALS EAT GUITARS, FUCK BUTTONS, JAMIE LIDELL
PERRY’S STAGE: LDJS REMIX, BBU, ANCIENT ASTRONAUTS, ANA SIA, PEANUT BUTTER WOLF, KIDS IN THE HALL, J. COLE, CASPA, EROL ALKAN, TIGA, 2MANYDJS
BMI STAGE: THESE UNITED STATES, THE ETTES, JUKEBOX THE GHOST, MY DEAR DISCO, SEMI PRECIOUS WEAPONS, NEON TREES
KIDZAPALOOZA STAGE: THE HAPPINESS CLUB, SCHOOL OF ROCK, THE CANDY BAND, TIM AND THE SPACE CADETS, ROCKNOCEROS, ED KOWALCZYCK, RECESS MONKEY

INTRO & INFO

Festival alternativi che diventano corporate e musica corporate spacciata per alternativa.
Tra questi due momenti si inscrive la storia passata, presente e probabilmente futura del Lollapalooza.

Il suo fautore e mattatore, un Perry Farrel (ex Jane’s Addiction) che nelle interviste televisive appare sempre meno istrionico e sempre più soggiogato dalle retoriche della seduzione muscolare e biologica dei nuovi hipster americani (che sono fascinosamente asettici e militarizzati. La loro nuova eroina è la Vitamin Water, l’unico credo la birra organica) non sembra soffrire dei nuovi vestiti che hanno cucito addosso alla sua creatura.

Nato nel 1991, il Lollapalooza si impone come il festival alternativo per eccellenza. Itinerante, spazia in diverse venues americane e canadesi e riflette un impianto senza pretese, ponendosi in maniera trasversale rispetto a quella X Generation che ne costitutisce l’orizzonte di riferimento, come si evince anche dal convincente saggio di Micheal Azerrad sull’underground americano, quando le band potevano essere davvero la tua vita e c’era un circuito fertile di fanzine, college radio ed etichette indipendenti. Il festival si interrompe nel 1997, anche a causa di una perdita di vitalità  dell’alternative che finirà  per smarrire i legami con le sue radici e la sua etimologia e sarà  semplicemente un genere in mezzo a tutti gli altri.

Il Lollapalooza torna nel 2003, quando fanno il loro ingresso le corporation, com’era già  accaduto per Woodstock ’94 e ’99 (quest’anno Budweiser, Sony Playstation e soprattutto American Apparel, che a giudicare dall’abbigliamento in circolazione è definitivamente riuscita a colonizzare l’immaginario estetico della nazione indipendente). Il messaggio è che il baraccone deve andare avanti, anche a prezzo di qualche concessione. Non c’è più il rischio che il festival salti per mancata vendita di biglietti, e in fondo quel carrozzone piace, c’è l’esaltazione dei grandi numeri, i fuochi d’artificio, perchè no. C’è perfino il Kidzapalooza, dove infanti privi di facoltà  di scelta di fanno tatuare finti teschi sulle braccia a beneficio degli album Facebook dei loro genitori.

Lungi dal sentirsi tradito e privato di una sua originale intuizione, Perry Farrel torna al Lollapalooza 2010 ed esulta sotto i tendoni dei biergarten ripetendo che è tutto bellissimo, giovane, esaltante e luminoso. Si dice entusiasta dei ventisette cambi di scena previsti da Lady Gaga e non risponde alle domande sull’eventuale incoerenza della partecipazione di quest’ultima al festival perchè nessuno gliela fa, questa domanda. In quel momento sento distintamente il suono dei poster dei Jane’s Addiction che vengono staccati dalle pareti di qualche fan della prima ora. Uno di loro, in albergo, quando ci racconta la storia del Lolla sembra rassegnato. Ci è venuto lo stesso, ci sono i Soundgarden (la buona notizia, a chi interessasse, è che a quanto pare Chris Cornell si è ricordato di essere un cantante).
Le statistiche in rete preannunciavano un netto calo di partecipazione a causa del fenomeno Gaga, ma le defezioni alla fine sono state irrilevanti, a dimostrazione che, come accade in questo paese all’indomani delle elezioni, i proclami di buona coscienza vengono sempre smentiti dai fatti. Degli anatemi lanciati dagli indie snob non è rimasta traccia, e la macchina del Lollapalooza non è stata intaccata.

Lo scenario del festival, in tutto questo, rasenta la perfezione: il gigantesco Grant Park è circondato da quei grattacieli che sono il manifesto di Chicago e tra i diversi palchi si aprono giardini e fontane che danno un tocco europeo al tutto. Il movimento delle masse oscilla tra il palco degli headliner (Lady Gaga, Green Day e Soundgarden) e quello della Budweiser al capo opposto, dove nelle tre sere suoneranno The Strokes, Phoenix e Arcade Fire. Uno split antropologico che più radicale non poteva essere: nei tre giorni di Lolla, infatti, si è registrata una nettissima contrapposizione tra spirito popolare e spirito elitario. Partiti dell’amore, performance da stadio e nostalgia retroattiva contro il fighettismo degli Strokes, l’approccio estetizzante dei Phoenix e il purismo musicale degli Arcade Fire. Da un lato, transgender, freaks, Mtv e grunge disadattati, dall’altro ninfe anoressiche e Pitchfork addicted.

Alla fine l’aspetto più rilevante del Lollapalooza 2010, oltre a qualche live che potrebbe avere davvero la pretesa di fare la storia, è la possibilità  di registrare lo stato di salute della (contro)cultura di un paese, della sua capacità  di divertirsi e di conservare suo malgrado bacini di creatività . Sugli intrattenimenti psicotropi collaterali vanno fatte poi della valutazioni: della violenza alcolica e sciatta ben nota ai frequentatori di festival nostrani nessuna traccia, malgrado i controlli all’ingresso fossero ridicoli (si poteva far entrare mezzo prodotto interno lordo colombiano in cocaina che la security non avrebbe protestato). Dicono che whisky e droghe white trash circolassero in abbondanza dalle parti dei Wolfmother, ma nel complesso gli ottantamila partecipanti del Lolla sono apparse come persone più interessate alla musica che ad altro, compatte e fin troppo pacifiche.

LOLLAPALOOZA ’10 – DAY ONE

L’anacronismo e la ferita di Gaga nella percezione collettiva dei giusti sono tali che quando i Devo suonano “Mongoloid” (in una collocazione infelicissima, di primo pomeriggio quando tutti stanno ancora ritirando il braccialetto di ingresso) sembra quasi di essere il posto sbagliato, dato che tutti attorno sembrano aspettare solo lei, ed è uno straniamento decisamente positivo. Malgrado l’età  che avanza, i Devo non danno l’impressione di essere dei rincitrulliti che stanno lì solo per soldi e dei loro bizzarri trasferimenti conservano qualche accento senza scadere nel ridicolo. Della loro prestazione musicale, senza neanche dirlo, va salvato tutto.

Per il resto la giornata offe la successione The Big Pink, che a distanza di tempo suonano sempre di più senza infamia senza lode, a dimostrazione dell’importanza del fattore tempo nel valutare una band, i The Walkmen (tra le band più chiacchierate e apprezzate della manifestazione) e Wavves, che dopo il flop al Primavera Sound è odiato e altrettanto amato dalla critica americana. Non si fa in tempo a seguire i Fuck Buttons, che suonano nell’area Spinning at Perry’s deputata altrimenti alle ordalie di selvaggi fissati con la dance noti per praticare il cosiddetto fist pumpin’ con i pugni tesi all’aria in piena aurea Jersey Shore. Nel tardo pomeriggio suonano The Black Keys (da seguire. Preparatissimi e intensi), in attesa del Gaga Horror Show.

L’ipocrisia intellettuale di tirare in ballo Andy Warhol e il gruppo Fluxus per giustificare la propria presenza dinanzi alla performer la risparmierei. Il motivo per cui il live in questione ha registrato tutta quella partecipazione, a parte gli stalker e i fan che lei si ostina a chiamare affettuosamente little monsters, è una brutale curiosità . Che le sue hit, per quanto eurodance, fanno ballare le masse. E’ il lato oscuro della forza, ma esiste e nella sua primordialità  è estremamente seduttivo, anticipa qualsiasi ragionamento, qualsiasi connessione neuronale cosciente. I testi sono imbarazzanti, i riferimenti costruiti e osceni, ma Gaga è preparata. Fa tutto quello che è possibile in due ore: travestimenti, esplosioni di sangue e lanci pirotecnici, quasi diverte (tant’è che Julian Casablancas, dalla parte opposta del parco a un certo punto ha sollevato la testa e ha esclamato: Fireworks uh? Shit. Tra l’altro il live degli Strokes è stato stranamente sottotono, sembrava di essere sia moralmente che tecnicamente lontani da “This Is It”, ma non credo si possa addossare la colpa alla concorrenza). Poi commette l’errore della serata: si mette a piangere.

Il personaggio Gaga dev’essere autoironico, altrimenti tutto quello che lo sorregge crolla miseramente. Non deve compiere l’errore di prendersi troppo sul serio, come l’ha accusata non a torto Joanna Newsom. A un certo punto si è messa blaterare: Ci rifiutavano, ma ce l’abbiamo fatta. Sono qui per difendere tutti voi, tutti voi mostri, neanche se il pubblico per uno strano incantesimo si fosse trasformato in una successione di Elephant Man che potessero giustificare questo delirio. E alla frase Due cose odio sopra tutte le altre, il denaro in me e la verità  sopra di me tutta la buona volontà  è andata a farsi benedire e il carrozzone Gaga è crollato.

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