Magari non sarà  più in vista come ai tempi d’oro del grunge, ma la Sub Pop è ancora da considerarsi a tutti gli effetti un’incredibile fucina di talenti per quanto riguarda il rock alternativo. L’etichetta fondata nel 1986 da Bruce Pavitt e Jonathan Poneman continua a tenere alto il vessillo della chitarra elettrica in un’epoca in cui sono in tanti a metterne in dubbio il valore. Questo perchè non hanno mai avuto la fortuna di ascoltare Hot Snakes, Metz, Pissed Jeans o Strange Wilds, tanto per citare solo alcuni tra i nomi nuovi (o per così dire) più rumorosi dell’impressionante roster della label che ci fece scoprire Nirvana e Soundgarden.

Da circa tre anni a questa allegra famigliola di casinisti si sono uniti gli australiani Deaf Wish, nel 2015 autori di un bell’esempio di nervosismo sonoro intitolato “Pain”. In quell’occasione i quattro di Melbourne – i chitarristi Sarah Hardiman e Jensen Tjhung, il batterista Daniel Twomey e il bassista Nick Pratt, oggi degnamente sostituito da Lee Parker – diedero prova delle loro indubbie qualità  (soprattutto dal punto di vista canoro: nei Deaf Wish tutti i membri riescono a ritagliarsi il loro spazio dietro il microfono) dando vita a un esplosivo mix vintage di punk, noise e garage rock tanto legato alle gloriose radici australiane (X, The Scientists e Birthday Party) quanto alla prestigiosa scuola statunitense degli anni ottanta (Sonic Youth, Mudhoney e Black Flag).

Per il nuovo “Lithium Zion” i Deaf Wish hanno deciso di fare un ulteriore salto indietro nel tempo e lasciarsi ispirare dai Velvet Underground più oscuri e malati di “White Light/White Heat”. L’influenza del capolavoro del 1968 firmato da Lou Reed e John Cale è più che evidente in episodi come “Easy”, “The Rat Is Back” e “Smoke”, nei quali il quartetto delizia con ritmiche ossessive, chitarre ipnotiche e inattesi sprazzi di melodie squisitamente pop. E già , perchè “Lithium Zion” è un lavoro decisamente più leggero e accessibile rispetto al suo predecessore: qui purtroppo non ci sono genuine sfuriate hardcore alla “Newness Again” e “Eyes Closed”, anche se in “Metal Carnage” fa la sua comparsa quella giusta dose di sana rabbia punk che non guasta mai.

I Deaf Wish cominciano timidamente a seguire nuove strade, senza tuttavia mai abbandonare quella spiccata attitudine lo-fi che tinge di noise il loro suono: da questo punto di vista impossibile non citare il feedback assordante di “Ox”, che ci riporta alla mente i fasti del giovane Thurston Moore. Le atmosfere cupe e notturne che avvolgono di inquietudine “Deep Blue Cheated”, “Hitachi Jackhammer” e la strumentale “Lithium Zion” – probabilmente le tre tracce più grezze e in linea con il passato recente della band ““ si diradano solo quando il microfono passa nelle mani di Sarah Hardiman.

è la sua voce incredibilmente espressiva e sensuale, a metà  strada tra PJ Harvey e Kim Gordon, a regalarci qualche spiraglio di luce nel trittico finale, composto da “Birthday, “Afraid For You” e dalla già  citata “Smoke”: i muri di chitarre e feedback iniziano a scricchiolare sotto il peso di tanta grazia, ma nel marasma di volumi assordanti il tutto si confonde in un frastuono stranamente raffinato. Nulla di nuovo o rivoluzionario sotto il cocente sole australiano, ma poco importa: “Lithium Zion” è davvero un bel disco.