di Elena Castagnoli

Tornano sul luogo del delitto Eddie Vedder e Glen Hansard, protagonisti di Firenze Rocks come nel 2017.
Diciamolo subito senza esitazioni: nessuna stella cometa, nessuno show epico, nessuna commozione per ricordare chi non c’è più, ma un grande concerto, gestito in modo esemplare dal miglior Vedder di sempre.
Il Festival inizia alle 15 e presenta una serie di proposte della scena indie-rock. Ovviamente ogni paragone con il passato del genere è quantomeno impietoso, ma è attualmente già  stimabile il fatto che questi artisti suonino degli strumenti veri e cantino senza autotune.

Il primo ad esibirsi è Jameson Burt, cantautore californiano con buon timbro e ottima presenza scenica,brani ben costruiti con lodi all’ottimo falsetto, un artista da tenere sicuramente d’occhio.
Il caldo inizia a farsi pesante intorno alle 16 e arrivano i The Amazons, band inglese in ascesa, che non spicca per originalità  e lascia la platea addormentata dal rovente pomeriggio fiorentino.
Alle 17 una botta di vita e di energia la regalano i The Struts, anglosassoni anche loro, con evidenti legami al mondo dei Queen e un frontman incontenibile. Luke Spiller e i suoi fanno ballare i presenti, hanno dei singoli orecchiabili, che invitano a canticchiare. Il risultato è una performance godibile e divertente, una sferzata di glam rock impreziosita dall’ottima sezione ritmica di Jed Elliott (basso) e Gethin Davies (batteria).
Se gli Stones li hanno scelti per aprire l’ultimo world tour ci sarà  un perchè.
Ore 18.30 salgono sul palco i Nothing But Thieves, band inglese pompatissima dai tabloid, con album di buon successo internazionale, che ricorda gli Arctic Monkeys con qualche distorsione di troppo. La resa live del progetto è poco incisiva, la differenza tra l’esecuzione su disco e la performance è vistosa e il frontman sembra capitato lì per caso. Magari cresceranno. Magari.

Alle 20 un boato accoglie Glen Hansard, cantautore irlandese, ex leader dei Frames con un premio Oscar in tasca per la miglior colonna sonora originale di “Once”, capolavoro del cinema indipendente d’autore.
L’amicizia con Eddie Vedder è profonda e radicata e genere il loro sodalizio artistico, che li vede condividere gli stessi palchi in Europa dal 2012. In questa occasione Glen Hansard è solo e si presenta suonando al piano la splendida “Grace Beneath the Pines”. E’ un crescendo di emozioni Glen ha un forte legame con l’Italia e ringrazia a più riprese per l’affetto che sente arrivare dalla caldissima platea. Alterna chitarra e pianoforte per un breve set che ripercorre la sua carriera, con menzione speciale per “Her Mercy”, dedicata a Leonard</strong Cohen, sua principale fonte di ispirazione.

Sono quasi le 22, il palco è allestito con un organo, le valigie, i pedali e gli effetti di scena dello show intimo
tra Eddie Vedder, leader dei Pearl Jam e i trentamila della Visarno Arena. Sceglie proprio l’organo per aprire il concerto, cogliendo molti di sorpresa con un brano nuovo, “Cross The River” . La scaletta prosegue con tanti pezzi dei Pearl Jam, con una sorta di Greatest Hits acustico, arricchito dal quartetto d’archi olandese Red Limo String Quartet, che impreziosice parecchio alcuni brani, da “Betterman” suonata con intro originale, ad “Alive”, eseguita solo dagli archi e cantata dal pubblico. Vedder è visibilmente emozionato, sa di vivere il paragone con l’indimenticabile serata nello stessa location del 2017, sa che molti dei presenti lo erano anche due anni prima e hanno vissuto la magia del ricordo di Cornell, il passaggio della stella cometa, la profonda commozione ed empatia creatasi. Si libera di questo peso da grande professionista, canta benissimo e sceglie di parlare molto poco, fatto inusuale per lui. Preferisce lasciar parlare la sua musica e vivere la migliore comunione del rock possibile, quella della condivisione con il suo pubblico.

In questa cornice da evidenziare il suo personale ricordo di Tom Petty, con una versione di “Wildflowers” da brividi, per ricordare uno dei più grandi cantautori di sempre, un esempio e un maestro per lo stesso Vedder. Le sue canzoni restano protagoniste: dal mini set dalla colonna sonora di “Into The Wild”, alla bellissima rivisitazione di “Sleeping by myself” con il quartetto d’archi, a “Just Breathe” dedicata alla
scomparsa di Zeffirelli. Tra le poche cover segnalo una divertente e sghemba versione di “Should I Stay or Should I Go” dei Clash con ukulele elettrificato e pubblico saltellante. Torna sul palco Glen Hansard e assiste Vedder alla chitarra, consentedogli di passeggiare sul palco per salutare il pubblico, cantando una delle migliori produzioni dello stesso Hansard: “Song of Good Hope”. Insieme poi i due danno vita alla migliore versione di “Society” possibile, e chiudono il concerto con “Hard Sun” e “Rockin’in the free world” di Neil Young, condividendo di nuovo il palco con i Red Limo String Quartet.

Lo spettacolo è più breve del solito, ma è pregevolmente costruito, con effetti scenografici dietro il palco,
video evocativi, quartetto d’archi e bellezza condivisa. Vedder appare in grande forma vocale, con una presenza che ha pochi rivali, una padronanza del suo repertorio e dello show superiore al passato.

Il concerto perde qualcosa in empatia ma per i più romantici l’appuntamento è senza dubbio a Collisioni Festival, l’invito è in forma di luna piena sullo sfondo del palco: Full Moon Fever a Barolo.