I giorni seguenti al funerale, gli Arcade Fire sembrano non riuscire a svegliarsi più dall’incubo – ogni volta lo stesso. Le notti passano immobili – una pillola dopo l’altra – oppresse dal grave peso della perdita. Tutte le parole sembrano prive di significato. Tutte le ragioni sembrano menzogne per cercare di guadagnare tempo. Si guarda in uno specchio scuro senza riflesso: esiste ancora una scelta? si chiedono…Poi d’improvviso, una mattina – affacciandosi al davanzale – ritrovano la speranza. Dentro di loro una voce li esorta a reclamare e lottare per quello che gli spetta. Da questa voce interiore nasce Neon Bible, secondo ed attesissimo album – autoprodotto – dell’ensemble canadese; continuazione concettuale e musicale di quel Funeral osannato da critica e pubblico.

Due anni non sono molti: il dolore per la perdita è ancora troppo vicino, troppo attuale. E’naturale dunque che si parta da quelle composizioni, da quegli archi innestati su chitarre e batteria (particolarmente evidenti in “Black Wave/Bad Vibrations” e “Windowsill”); da quelle voci e da quei cori che si incontrano, partono, ritornano, si cercano e si allontanano in sontuose e maestose suite (“The Well And The Lighthouse”). Ma in due anni si possono ritrovare le risposte o – almeno – intravedere la luce di quei “tunnel che vanno da finestra a finestra”; guardandosi dentro e riscoprendo la fede. Ne scaturisce un confronto a distanza – a volta pacato, a volte aspro e disperato – tra un Dio che non manda nessun segnale – i cui piani sono spesso misteriosi – ed un buon cristiano che non trova risposte ed ha paura del tempo che vola via; confronto magnificamente reso dalla profondità  delle liriche che – per quanto mi riguarda – soltanto il miglior Sufjan Stevens è fin qui riuscito a raggiungere. Nell’album questa tensione si avverte negli arrangiamenti più ricchi (la band di Win Butler è infatti affiancata da un’intera orchestra ungherese); nella drammaticità  dell’organo, che introduce ed accompagna gli archi di “Intervention” (canzone che da sola varrebbe l’acquisto del disco); nei veloci e taglienti blues di “(AntiChrist Television Blues)”, dove i canadesi si affacciano per la prima volta sui territori dei Wilco di A Ghost Is Born; nell’utilizzo di strumenti d’epoca come l’hurdy-gurdy; e nell’incertezza creata da alcuni discreti inserti elettronici, individuabili soprattutto nella vena wave di “No Cars Go”.

Il disco non è semplicissimo: per apprezzarlo appieno va metabolizzato con almeno tre-quattro ascolti (le canzoni più immediate sono “Keep The Car Running” ed il già  citato blues). Nell’insieme, non si tratta di un cambiamento radicale rispetto al suo predecessore, ma “soltanto” di un piccolo passo in avanti. Una volta però catturati da queste undici composizioni, sarà  come essere sommersi dalla grazia e dalla bellezza della luce del mattino.

Credit Foto: Guy Aroch