Nathan Fake è cresciuto.
Non è più un bambino prodigio, ma il prodotto raffinato di un’evoluzione artistica e umana con connotazioni ben marcate e distintive.
Dalla Bedroom Generation, a cui era stato suo malgrado associato fin dagli esordi musicali (anno di grazia 2003, mese più mese meno ) è passato, attraverso un percorso graduale e lineare, ad un diverso risultato espressivo, più penetrante, più empatico, più dancefloor oriented.
Ma non lasciatevi ingannare dalla terminologia, poichè l’elemento intelligent nelle sue composizioni è l’unica vera eredità  tramandata con costanza negli anni.

Dunque da “The Sky Was Pink”, successone planetario mandato nello spazio da un remix monolitico di James Holden e dalle lodi sperticate di un Kevorkian in veste cosmica, a “Hard Islands”, anno 2009, si assiste ad una mutazione abbastanza profonda delle sue rotte cardinali.
Forse la valenza shoegaze si è trasformata in montata ormonale a base di testosterone a secchiate?
Dal tentativo isolazionista e delicato del primo lavoro ” Drowning In A Sea Of Love” con echi di Boards Of Canada e M83, al punto che venne coniato all’epoca il termine Emotive Dance Music, Nathan inserisce pezzo per pezzo, e questa volta sono sei come fosse un semplice E.P. qualsiasi, schegge di movimento cadenzato, affreschi ballerecci ma con il cervello ben attivo, alternanze chiaroscurali, ma cool da ballare in locali azzimati e di confine.
Non nego che al primo ascolto notturno un po’ svogliato e a occhi pesti, la tentazione di dare fuoco al promo è stata grande.

Una serie di suoni insulsi e sparati a casaccio, privi di una personalità  riconoscibile e di una cifra musicale accettabile, mi pompava nelle orecchie.
La prima conclusione allora è che un album come “Hard Islands” va ascoltato e riascoltato più volte e in più occasioni per essere veramente captato e apprezzato.
La sua poliedricità  infatti si rivela essere l’arma vincente, con una sommatoria di sfaccettature sonore invidiabile e altrettanto impressionante.

Composizioni spesso un po’ barocche, a dire il vero, crashano con lampi minimali che farebbero verde di rabbia pure i Booka Shade, (confronta ad esempio “The Turtle” con le sue citazioni Kraftwerkiane e le stratificazioni di “Basic Mountain”), trovi la finezza della sperimentazione friendly con echi visionari della prima scena tech di Detroit (“Castle Rising”) a fianco di un elementare divertissement ambientale da Big Chill Festival (“The Curlew”).
C’è posto anche per le bombe in chiusura di cd: in primis la techno mentale di “Fentiger”, connubio tra la scena post rave primi anni 90 e le aperture trancey del periodo successivo e ad un’incollatura “Narrier”, teutonica nel suo incedere svagato e onirico, bpm su bpm, con i synths in distorsione post botta da ecstasy, ma priva di ogni rimorso morale a seguire.
In definitiva queste due sono le mie songs preferite, da buon tamarro della provincia quale sono e mi riconosco sempre più fieramente, avvezzo più alle piste da ballo buie e tempestose che alle chincaglierie da Classifica Show e happy hours mosci e incolori.

Allora diamo tempo al giovane Nathan, che tutto si rivela essere tranne che un Fake.
Chissà  di che escalations mentali sarà  capace nel futuro prossimo venturo: dopo due albums, una manciata di singoli e remixes sempre sul pezzo e pronti a ridefinire l’ estetica e i canoni di una musica elettronica spesso al bivio tra genialità  e tedio, solo l’ empireo può accoglierlo a braccia aperte.
Io voto per il ragazzino che non c’è più e per una musica che fa sognare quando ancheggi alle ragazze desiderose di te.

Photo: Bandcamp