Non ho mai avuto un buon rapporto con la musica elettronica ‘tout-court’, men che meno con la disco, la trance o la techno…Sicuramente il mio passato rockettaro mi ha sempre spinto, davanti agli occhi, delle gigantesche fette di salame per non farmi vedere, e sentire ovviamente, nulla di vagamente simile ad un ta-pum-ta-pum-ta-pum. Con delle eccezioni, per fortuna, come certe cose dei Gus Gus, con le loro atmosfere ovattate, degli Smith & Mighty, con il loro pulsante drum’n’bass, o le gustose campionature vintage di Fatboy Slim.
E con qualche divagazione, quando il tutto si fonde con suoni acustici per diventare folktronica come nei migliori Mùm, o incamera qualche elemento rock, per virare verso il kraut-rock alla Notwist degli esordi. Oppure ancora, quando la complessità  delle trame elettroniche è tale da tenere sempre sveglio e vigile l’interesse del mio cervello, come negli infiniti schemi che si intrecciano nelle composizioni di LCD Soundsystem

Qualcosa di simile, e al contempo più intenso, mi è piombato addosso con questo nuovo disco dei Fuck Buttons, quando più che di un ascolto posso parlarvi di un viaggio, uno psichedelico fluire di ritmi, rumori e melodie, che senza soluzione di continuità  mi ha sommerso per i cinquantotto minuti di “Tarot Sport”.
Per la seconda prova, Andrew Hung e Benjamin John Power abbandonano i martellanti ritmi tribali e le urla inquietanti dell’esordio, si fanno seguire per la produzione dal mago del momento, Andrew Weatherall, e confezionano un disco quasi dance-oriented che mantiene però intatto tutto lo sperimentalismo del precedente “Street Horrsing”, virando dai toni cupi di un horror-splatter alla Sam Raimi a quelli di una brillantissima commedia noir come solo i Coen sanno farla.

Le sciabolate di “Surf Solar” in apertura ci colpiscono come delle sferzate di energia che si susseguono per dieci minuti senza sosta, per lasciare il passo alla sperimentazione di “Rough Steez”, claustrofobica con i suoi rumori chiusi nel rimbombo di una stanza; con “The Lisbon Maru” e “Olympians”gli spazi si riaprono, ma sono quelli marziali di ritmi e tastiere che riecheggiano la solennità  che potrebbe essere di Vangelis o di Jarre, non fosse per l’esplosione di noise, che all’improvviso sommerge tutto, o per l’incursione delle ritmiche lasciate da sole a riempire lo spettro sonoro, veloci al punto da togliere il fiato; sembra quasi un attimo di quiete il kraut-rock sporcato di noise di “Phantom Limb”, prima di ripartire per gli ultimi due brani, forse i migliori del lotto: “Space Mountain” e “Flight Of The Feathered Serpent” ci sommergono di ritmi pulsanti e rumori assordanti, senza tregua, concedendoci soltanto variazioni sullo stesso tema, senza lasciarci possibilità  di fuga, alternando situazioni e squarci su un tappeto in continuo movimento.

Il silenzio finale giunge appagante…