La poetica di Eastwood non si è mai liberata del mito della Passione: quell’immagine di Harry Callahan che giace sconfitto ai piedi della croce che sovrasta la baia di San Francisco, temporaneamente annientato dalla burocrazia, dai giochi di potere, da una società  impazzita che genera mostri.
Non ci sarebbe niente di più sbagliato che ritenere “Invictus” un suo film minore: dietro al desiderio di Morgan Freeman di interpretare Nelson Mandela c’è tutta la volontà  dell’attore/regista di aggiungere un nuovo tassello alla sua costante ed eccezionale maturazione, se un termine simile può essere adeguato ad una persona di ottanta anni (e con svariati premi e riconoscimenti alle spalle), che ha capito come per insegnare qualcosa sia sempre necessario continuare ad imparare.
Bisogna stupire i propri nemici sostiene Mandela, mentre tutti gli chiedono di eliminare ogni traccia dei bianchi dalla storia e dalle tradizioni del Sudafrica: ed Eastwood non fa altro da quaranta anni, da quando ha iniziato – un gesto che già  in se dimostrava un coraggio spropositato – a mettersi dietro alla macchina da presa.

Nella storia dell’uomo che ha sovvertito ogni pronostico, in quella del capitano di una nazionale che ha ribaltato ogni previsione, c’è anche quella di un ragazzo a cui tutti sconsigliavano di fare persino l’attore, e che adesso è diventato uno dei più grandi autori americani viventi.
C’è tutto il percorso della sua crescita e della sua riconciliazione: un altro personaggio abbandonato (dalla figlia e dalla moglie) che ha compreso come l’odio non possa generare nient’altro che odio, e che riesce ad evitare che questa enorme consapevolezza finisca per diventare motivo di sacrificio e di martirio, come invece capitava nella tarda conversione di Walt Kowalski in “Gran Torino”.

Nel mezzo, c’è anche la storia degli Stati Uniti, in quella visione ecumenica che Mandela ha rappresentato per la sua nazione e che Obama potrebbe (sembra essere un auspicio di Eastwood, almeno secondo le ultime parole che faceva pronunciare ad Angelina Jolie in “Changeling”, citando uno dei più celebri slogan elettorali del presidente) rappresentare per la sua: la pacificazione nazionale, che l’inquilino della Casa Bianca difende nei suoi discorsi (We are not a collection of Blue States or Red States, we are only the United States…).
Ed Eastwood non si risparmia di evidenziare come questo percorso sia segnato spesso dallo scontro contro la propria gente, che ne critica la pietà  (non sarei un leader, se non avessi il coraggio di rischiare) e l’operato, e il qualunquismo dilagante come quello del padre di Pienaar.
I volti segnati dei giocatori di rugby sono quelli dei veri soldati americani di Iwo Jima, che trasportano la palla ovale in mischia come la bandiera del celebre (falso) monumento, nel nome non del nazionalismo, ma di un nuova visione di umanesimo incarnata in una nazione.
Il cinema di Eastwood ha sempre la semplicità  dei classici, da immagini simboliche come quella iniziale, con una strada che ancora divide il campo di allenamento degli afrikaaner da quello dei neri, il rugby dei coloni dal calcio dei colonizzati, e quella macchina che passa per abbattere le divisioni.

E’ parte integrante di quella facilità  di lettura che sorprende soprattutto quando è impegnata dall’enorme fardello di un messaggio civico: quella retorica mai invadente o ricattatoria, l’unica in grado di commuovere e di trasportare al di là  del finale già  scritto.
Perchè l’esito finale non è sancito dalla sceneggiatura, ma dalla Storia (per gli spettatori che sanno già  da quindici anni il risultato di quella partita) e dal destino (per chi come Pienaar aveva compreso il senso della sua missione in campo).
L’unica banalità  è la frequenza con cui Eastwood è ormai capace di sfornare capolavori.

Cover Album
Regia di Clint Eastwood
Sceneggiatura: Anthony Peckham
Fotografia: Tom Stern
Montaggio: Joel Cox e Gary Roach
Interpreti: Morgan Freeman, Matt Damon, Tony Kgoroge, Patrick Mofokeng, Matt Stern
Origine: USA, 2009
Durata: 133′