Iniziando dalla fine. Un album così non ha molte note dolenti, e questo è il primo pregio. Jack White non si dà  pace, a cavalcioni tra mille progetti quasi tutti validissimi, tour con chiunque, collaborazioni a destra e a manca e l’immancabile, periodica, dichiarazione per rimanere sulla cresta dell’onda anche per quanto riguarda la stampa. Con i Dead Weather ha esordito con un disco pregevole, senz’altro capace di conferire loro un tono proprio, indipendente rispetto agli altri ‘svaghi’ dell’americano. La sua vena compositiva rimane preminente e nessuno degli altri strumentisti che prende parte alla registrazione riesce a prevalere lasciando il segno in maniera evidente, eccezion fatta per la splendida, graffiante, voce di Allison Mosshart che, abbandonati i The Kills, si forgia anche di qualche tonalità  più ‘femminile’ nelle sue linee vocali, senza mai fuggire troppo dal ruolo che tutti le riconoscono.

In questo disco, di tutto. Un’anima blues stemperata momentaneamente dalle incursioni hard rock ed elettroniche, che rimbalzano anche nel noise e nel classic rock. E così, relegando le influenze ledzeppeliniane già  conosciute nel debut album ad alcuni brani (in primis il pezzo d’apertura, “Blue Blood Blues”, uno dei più riusciti sia come struttura che come presa, ma anche il corpo centrale della massiccia “The Difference Between Us”), si incastra in un’atmosfera quasi da jam session, dettata dal tipo di costruzione dei brani e dalla scelta dei suoni, quasi tutti molto spogli, privi di fronzoli e curati solo per quanto riguarda l’impatto, non per la loro sostanza. Come se i settanta non se ne fossero andati, rivestiti però di synth nati almeno un decennio dopo.

Il basso sostiene ritmiche molto più funkettone, in episodi saltellati come “I’m Mad”, dove incursioni sintetiche interrompono e sbiadiscono quella linea fondata sul riff di base, prevalente per la prima parte di canzone, salvo poi scomparire in una coda pseudoimprovvisazionale (un po’ come tutta “Jawbreaker”, anche questa molto sixties nel suo impianto chitarristico alla Jimmy Page prima di cedere alle immancabili White-sboronate a chitarra e synth qui lasciate alle dita di Alison e di Dean Fertita, ex The Waxwings). Alternative rock alla inglese, seppur reso meno grazioso grazie alle timbriche della Mosshart, nel singolo “Die By The Drop”, con qualche comparsata di White alla voce a rendere più succulento il piatto (ricordiamo che in questo progetto il “biancorigato” è prevalentemente batterista). E infine quei pezzi che assomigliano, forse un po troppo, ai White Stripes e ai The Raconteurs, somiglianze che si trasformano in nei piuttosto importanti se si considera che la “mente” di questi progetti è la stessa di quella dei Dead Weather; e non serve citarlo nuovamente.
Trattasi di brani come “Looking At The Invisible Man” e “Hustle and Cuss”, dove però si può individuare la presenza degli ingredienti più blues (e meno garage, anche se i suoni sono presi proprio da quel panorama rappresentato egregiamente da Captain Beefheart, beniamino dell’artista di Detroit) tipici della superband di cui si sta qui parlando.

L’album di per sè rappresenta la conferma che si attendeva dopo il più che discreto debutto. Niente di nuovo sotto il sole, ma un ritorno “‘alle origini’, quelle che hanno influenzato i componenti dei Dead Weather anche in tutti i progetti precedentemente (o contemporaneamente) avuti, rimiscelate in chiave odierna senza sbavature, senza neanche attualizzarle troppo (il che sarebbe letale, visto che ci hanno già  provato in troppi, con scarsi risultati). Un efficacissimo tributo a chi la musica l’ha cambiata da chi la musica la vuole fare senza le pretese di scrivere la storia. Divertimento e un po’ di guadagno. Che male c’è?

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Sea Of Cowards
[ Third Man – 2010 ]
Similar Artist:The White Stripes, Led Zeppelin, Captain Beefheart, The Raconteurs
Rating:
1. Blue Blood Blues
2. Hustle and Cuss
3. The Difference Between Us
4. I’m Mad
5. Die By The Drop
6. I Can’t Hear You
7. Gasoline
8. No Horse
9. Looking At The Invisible Man
10. Jawbreaker
11. Old Mary