Solo una nota. Un unico suono di synth, tenuto dall’inizio alla fine, sempre uguale. Una vibrazione raggelante e angosciosamente monocorde. Sale lungo la spina dorsale; percorre la schiena dal basso fino alla base del cranio, per rimanere lì, fissa, come un’ossessione. Poi le chitarre, martellanti e storte, che fanno da contrappunto ad un drumming nevrotico, teso. Voce alienata e alienante, intenta a materializzare deliri sotto acido.
Una danza tribale sotto anfetamine ambientata in una asettica metropoli post-industriale; luci al neon, cemento e asfalto.
Questa è “Giant Rabbits Are Looking At The Sun”, terza traccia di nove.
Questi sono i Buzz Aldrin, trio bolognese con alle spalle un demo autoprodotto dall’impatto di una granata al napalm.

No-Wave psicotica, il primitivismo dei Suicide, New York che incontra il post-punk dei Wire, i Velvet Underground più drogati, uno schizzo di shoegaze e diverse manciate di incubi: amalgamate il tutto ed avrete i Buzz Aldrin.
Apre il disco “Eclipse”, mantra nervoso con accompagnamento di percussioni e sei corde sferraglianti, seguito dai 97 secondi di “The Fall”, fuga schizofrenica senza esito finale. “Machine 2999,99” si regge su un drumming marziale mentre abusa selvaggiamente di un riff già  dei Massive Attack. La litania funebre di “Hola Gringo” apre le porte della “White Church”: niente cori angelici, all’interno di questa chiesa sconsacrata, ma droni disturbanti che degenerano nell’apocalittica nenia di “Let’s Walk The Children Around The Space”. Il tempo di prendere una boccata di ossigeno puro ed ecco le porte degli inferi che si spalancano tra cori demoniaci e inquietanti campane (“Enter”): è la fine (“No Time/No Age (White Eyes)”), e tutto termina così come è iniziato, con un’orgia dionisiaca di loop, percussioni selvagge, riff caustici, spasmi vocali, fino all’esplosione definitiva.

Un disco da avere.
Saluti dall’inferno.