Lizzy Grant nasce nello stato di New York nel 1986.
Il papà di Lizzy Grant è un imprenditore del web con un reddito sufficiente da spedirla in una scuola privata quando la ragazza inizia a indulgere in qualche vizio.
Lizzy Grant suona alle feste di liceo, ai concerti di beneficenza, si trasferisce in una roulotte in New Jersey decorata con inappropriate luci natalizie. La roulotte significa Guarda come sono fuori stagione. Guarda come sono inadeguata.
Nel 2008 Lizzy incide un Ep trascurabile, dissemina la rete di tracce: sequenze seriali di una ragazza con i capelli biondi, le guance lucide, le labbra strette in una linea piatta.
Poi un giorno Lizzy Grant sparisce.
Al suo posto arriva Lana Del Rey (e il nome ci dice già tutto quello che dobbiamo sapere: la diva di Hollywood Lana Turner nota per le sue burrascose relazioni sentimentali- quelle che ti procurano un occhio nero- e la Ford Del Rey, una macchina di produzione sudamericana diventata obsoleta prima del tempo). Fino a qui la storia sembra una versione edulcorata e corretta di “L.A. Confidential” di James Ellroy, dove la ragazza andava via nel nulla, la ragazza tornava in forma di prostituta, la ragazza non tornava affatto.
Durante l’estate del 2011 la ragazza che ‘mi disegnano così’ mette in circolazione un singolo e un video fulminanti: forse l’unico momento di onestà in tutta la vicenda Lana Del Rey – e sul valore dell’onestà ci sarebbe comunque da discutere- è rappresentato proprio da “Video Games”. Perchè a quel punto della storia possiamo ancora crederle, possiamo ancora rispettare la sua allure melodrammatica e il suo retrogusto ridicolo e autoindulgente, il suo misticismo da piscina deserta alle due di pomeriggio.
Il caso vuole però che la ragazza e i suoi produttori alla Sony decidono che il punto di riferimento non è Judy Garland ma Anna Oxa a Sanremo e ci consegnano il singolo Born to Die la cui estetica non perfettibile nella sua ovvietà (la corona di fiori in testa, l’occhio da cane bastonato, le fiamme, live fast die young) ci arriva imposta, consumata, già stanca. E così che iniziamo a crederle un po’ di meno, e smettiamo di farlo del tutto quando esce il disco.
Perchè difficilmente Lana Del Rey poteva fare qualcosa di peggio.
E’ tutto sbagliato: sono sbagliati i beats disinfettati (“I Grew Up On Hip Hop” dice) è sbagliato l’intreccio con la semantica di Katy Perry, è sbagliato credere che ci si possa spacciare per la regina di Coney Island (“Off The Races”) se poi di Coney Island non si ha l’intima tragedia.
Ed è paradossale, e forse non è mai successo nella storia della sua Hollywood sadcore (neanche David Lynch al suo peggio avrebbe potuto escogitare una beffa del genere), che proprio quando la stella viene scritturata per il film più importante dell’anno e si piazza al centro dei riflettori la stampa e il pubblico- non tutto, solo quello che lei voleva impressionare- le si ribelli, che lei venga esposta al suo martirio di rose appassite nel camerino, dove nessuno si preoccupa più neanche di mandarle lettere minatorie, dove le ragazze in fila nelle audizioni in periferia si preparano a farle posto, perchè non c’è più niente di minaccioso in lei, una Lizzy Grant qualunque.
Lana Del Rey si è suicidata la sera del 14 gennaio quando ha cantato “Blue Jeans” davanti a milioni di americani sul palco del Saturday Night Live. Inadeguata nel suo vestito di pizzo ingiallito, visibilmente nervosa, ha dato luogo a una performance indifendibile, di quelle che ti costringono distogliere lo sguardo dallo schermo perchè ti vergogni per lei.
La cosa davvero insopportabile nel romanzo della sua ascesa e del suo declino non è il fatto che un certo pubblico abbia smesso di crederle- con questo disco se l’è cercata- ma che abbia deciso di condannarla a priori per il suo ostentato flirtare con il pop dei grandi numeri, per la sua prevedibile consacrazione alla retromania industriale.
Per il pubblico indipendente assolvere artiste come Adele è facile: è lei che in qualche modo sta venendo da noi, è lei che in qualche modo presta omaggio a certe sonorità a cui prestiamo attenzione, e poi ha quella voce, e poi ha il cuore straziato. Come se non avere le labbra rifatte fosse indice di un tasso di manipolazione inferiore.
Ma assolvere Lana Del Rey è del tutto impossibile, perchè in qualche modo è lei che sta andando verso di loro, è lei che sta saggiando le capacità di resistenza dell’indie come se fosse un elastico impossibile da spezzare. E invece l’elastico di spezza, e in “Mullholland Drive” Betty Elms non avrebbe mai dovuto trasferirsi a Los Angeles.
La verità è che Lana Del Rey ci dice molte più cose sulla fragilità del nostro statuto digitale, sulle nostre insicurezze e sulla nostra ambizione più di quante ce ne dirà mai sulla musica.
Se un giorno potessimo reinventare tutto quello che siamo in cambio di un corpo nuovo, forse neanche la fede nell’autenticità basterebbe a fermarci.
In se l’autenticità non è altro che un ricatto morale, non presuppone onore nè sofferenza.
Non è vero che Lizzy Grant era più brava di Lana del Rey e non è vero che perseverando ce l’avrebbe fatta. E’ una costrizione terribile pensare che non possiamo cambiare, mai; credere che l’etica sia solo di chi non si corrompe è un’idea che appartiene a un mondo già vecchio.
Lizzy Grant un giorno ha deciso di sparire. Al suo posto, non avremmo fatto tutti lo stesso?