Non è il tempo ad essersi fermato e non sarà  un album a riportare indietro le memorie di decadi fumose di ghiaccio secco e vapori alcolici da Stock 84. L’eroina è una presenza nitida: ha cambiato nome, sale su per il naso ma poi il percorso è il medesimo e scivola su, verso l’alto come un nodo scorsoio ad aprire per chiudere. I Bohemien c’erano e ci sono: non hanno cambiato nome e l’estetica rimane appesa a ciò che poi, comunque, davvero conta: i bassi, il ritmo, le melodie e l’attitudine. Quella brutta bestia della memoria è rimasta chiusa in un romanzo di Bret Easton Ellis ma non ci vuole poi molto a riprenderla e a farla vivere come se nulla fosse. I romani Bohemien, d’altronde, potreste non ricordarli probabilmente perchè nel 1985 non eravate ancora nati, eppure quando uscì quel demo, “Sangue e Arena”, in molti si chiesero cosa avesse di peculiare una band che suonava così esotica da sembrava inglese.

Se lo chiesero così tante persone che questo gruppo di gente pettinata malissimo finì per suonare alla prima edizione di Arezzo Wave. Poi un batterista che saluta, un biglietto aereo per l’Argentina, e una band che entra in letargo fino al suo ritorno nel 2002 quando, tornati finalmente insieme, mettono su disco (“Danze Pagane”). E le loro esperienze volano, stavolta insieme, a Manhattan per suonare di supporto a Nina Hagen. Nel 2006, però, l’ultimo viaggio Walter, il batterista, lo spicca da solo e non torna più.

Che nel 2013 ci sia ancora bisogno dei Bohemien è semplicemente un dato di fatto. Non fosse altro perchè se la qualità  compositiva (componente essenziale del loro repertorio) è ancora questa, non serve opporre resistenza. Le coordinate musicali sono una cosa dannosa ma utile da dare e quindi nessuno si sorprenda se citiamo i Durutti Column, UV Pà’P ma anche e soprattutto gli stessi Bohemien di quegli anni. Sembra di risentire il cupo respiro di “Tra Specchi” o, perchè no, i Litfiba a loro contemporanei: quelli di “Desaparecido” e “Eroi Nel Vento” e di un’ispirazione nuova, allora, che per loro è del tutto svanita.

I Bohemien, invece, tirano dritto. La voce sbilenca, perennemente sospesa tra la nota giusta e un accordo in minore di Alessandro Buccini (“Un Altro Sabato Ancora”, “Gli Occhi Degli Amanti”) chiude un cerchio melodico che inizia dalla foga di un basso nervoso per proseguire fra tastiere essenziali e una batteria dal gusto minimalista e geometrico. La miscela del tutto è una misura quasi perfetta entro cui si confondono richiami, sì, alla new wave, ma anche e soprattutto a un pop moderno e asciutto e, sembra strano a dirsi, del tutto italiano.

Il post-punk da Piper Club si confonde con una deriva goth in “Serial Painter” prima di perdersi in uno scorrere di atmosfere ora dilatate, come in “Le Foglie Tremule” o “Lo Spettro Della Rosa (Prologo)”, ora concitate (“Natura Morta”).
Diremmo una cosa ovvia se evidenziassimo la chiara matrice cinematografica dell’album e dunque non ne parleremo; ma ci risulta impossibile non domandarci se un album del genere abbia ancora un senso nel 2013. La risposta, ovvia, è: sì. Diceva Emil Cioran che “quando un solo cane si mette ad abbaiare a un’ombra, diecimila cani ne fanno una realtà “. I Bohèmien quel fantasma lo videro davvero nel 1985 e se oggi mezza scena pop nostrana non risulta ridicola quando scimmiotta suoni e attitudini d’oltralpe lo deve anche a chi, in piena coscienza, anni prima rese affare personale la new wave. C’è parecchio  Bohemienin giro: evviva i Bohemien.