Capire i Verdena è impossibile. Al massimo, ci si può approssimaare ad Alberto e Luca Ferrari e a Roberta Sammarelli . Il loro segreto, forse, è tutto qui. Puoi sforzarti di inseguirli, puoi corrergli dietro e, a ogni nuovo album, avrai l’impressione di essere arrivato a toccarli, prima con la punta delle dita, poi con la mano piena. Avri la fronte sudata come quando scappavi a giocare sulla piazza dopo la messa della domenica. Sentirai la presa salda, sicura. Avrai l’impressione di averli capiti. Non guarderai, da una fessura, dentro una stanza in ombra, no: ascolterai il nuovo album dalla prima all’ultima traccia (lo farai molte volte) e sarai convinto di essere in mezzo a quella stanza, di aver capito tutto, di poter seguire con lo sguardo ogni linea, ogni luce, ogni segno.

Con i Verdena è sempre stato così. Da “Requiem” (2007), una pietra scurissima e solida, a “Wow” (2011), caleidoscopio folle e sfaccettato, il trio bergamasco si è sempre spinto un po’ più in là , aggiungendo a ogni nuovo disco un tassello, una sfumatura nuova.
Se volessi ridurre questa recensione a meno di una riga, direi più o meno così: “Endkadenz Vol. 1” è una sintesi di “Requiem” e di “Wow”. Ci sono le chitarre dell’album nero e ci sono la psichedelia e i suoni sfaccettati del doppio della consacrazione. Solitamente non amo ragionamenti di questo tipo, che tentano di riportare l’ignoto nelle caselle rassicuranti del noto, ma non butterei via (almeno non subito) la sintesi della sintesi per due motivi. Il primo è un motivo quasi scientifico (ma in effetti non sono un esperto di neuroscienze, quindi potrebbe essere la minchiata dell’anno): i nostri neuroni, quando processano un’informazione nuova, cercano di recuperare elementi già  conosciuti. Il secondo motivo è che quella mezza riga (riassumibile anche matematicamente: “Requiem” + “Wow” = “Endkadenz Vol. 1”) dice una cosa sui Verdena: di album in album, hanno preso quanto fatto, l’hanno chiuso in una scatola e se lo sono portato dietro. Ecco, non l’hanno buttato via per inseguire certe sonorità  “di tendenza”, non si sono lasciati infettare dal virus del cambiamento a tutti i costi; hanno arricchito il loro suono, integrando anche elementi antitetici, e hanno proseguito sulla loro strada, avulsi da qualsiasi tipo di scena musicale.
Adesso possiamo buttare la recensione in una riga e ricominciare daccapo.

“Endkadenz Vol. 1” è barocco, nella misura in cui riprende concetti associati d’istinto al Barocco – horror vacui, forme irregolari che si avvitano e rendono evidente la tensione che le attraversa, proporzioni esagerate – e li trasporta nel 2015, rileggendoli con occhi che, proprio perchè hanno visto la fine di tutto (compreso il Postmoderno), sono liberi di fare il cazzo che gli pare (con buona pace dell’industria musicale in crisi, dei dischi inconsistenti con un paio di singoli giusti giusti per essere dimenticati dopo qualche settimana, dei dinosauri che ti ficcano il loro album nell’iPhone spacciandolo per un grande gesto di generosità ).
I suoni di “Endkadenz Vol. 1” sono densi e stratificati. Il fuzz attraversa ogni canzone e funziona come un laccio che tiene insieme una tessitura sonora complessa, dominata dalla batteria di Luca Ferrari, che costruisce un’ossatura solidissima su cui poggiare chitarra e basso spessi e rumorosi (“Un Po’ Esageri”, “Rilievo”, “Derek”). I tre del pollaio non hanno paura di ritmi franti e sincopati: “Sci desertico” spinge avanti il discorso iniziato in “Wow” con “Rossella Roll Over” e con “Mi coltivo”; “Rilievo” accelera e rallenta e accelera e gioca a spogliarsi fino a restare solo voce e percussioni per alcuni secondi di purezza primordiale, dopo i quali si riveste di elettricità  abrasiva e distorta, disturbante e maestosa nel suo incedere, fino a una coda su cui un ritmo tribale getta la sua ombra conradiana.
Quelle che sembrano, almeno all’inizio, ballate lente e placide (“Diluvio” e “Vivere di conseguenza”) si arricchiscono di suoni distorti che le ispessiscono e le rendono carnali e ruvide.
Ci sono episodi più oscuri, come “Alieni fra di noi”, e schegge di luce come “Contro la ragione”, episodio fichissimo che mostra come l’inserimento di un pianoforte vero (addio caro piano elettrico che avevi segnato il suono di “Wow”) abbia arricchito il suono dei Verdena, portandolo in un territorio pop tinto di psichedelia.
Che non siamo di fronte a una semplice rock band lo dimostra “Puzzle”: un pianoforte, una chitarra che ricama una melodia dal sapore beatlesiano, un synth che crea un’atmosfera a tratti epica, a tratti inquietante, una batteria potente che guida accelerazioni e cambi di ritmo con una sicurezza impressionante, una chitarra che abbandona il ricamo per picchiare. Il power pop di “Un po’ esageri” ha imparato la lezione dei Pixies ma si allontana dal modello e assume una consistenza diversa: è come se la batteria, la chitarra e il basso fossero spessi e stesi a strati come catrame, con una superficie di bolle che si gonfiano fino a scoppiare in sequenza come tessere del domino.
“Inno del perdersi” esprime nella forma il concetto del titolo: procede lenta e pesante come una colata lavica, ti allontana dal suo (e dal tuo) centro e alla fine, quando arrivano gli applausi in coda, sembra di esserti svegliato di colpo da un sogno.
“Funeralus”, in chiusura, è un’altra sterzata brusca: il piano che riprende il tema di “Contro la ragione” lascia presto spazio a beat downtempoe synth; Alberto Ferrari usa la voce come uno strumento (elemento che accomuna tutti i pezzi dell’album); il ritorno prepotente, sul finale, di chitarra e sezione ritmica.

L’impressione è che Alberto, Luca e Roberta abbiano messo in un frullatore, senza premurarsi di coprirlo, i Beatles, il Battisti di “Anima Latina”, i Queens of the Stone Age, Kurt Cobain, i Flaming Lips, e il risultato è un rumore controllato, denso e stratificato, in cui i generi si sporcano e la psichedelia, il pop, lo stoner, il grunge, diventano etichette vuote e incapaci di contenere tutta la forza di questo disco.
L’ascolto di “Endkadenz Vol. 1” mi ha causato sensazioni fisiche, come se mi fossi tuffato di testa in una sostanza con una consistenza cangiante, a volte morbida, altre ruvida e spigolosa. Non è una sensazione casuale. Il compositore argentino Mauricio Kagel chiudeva ogni spartito con un’indicazione, endkadenz, rivolta al timpanista, che, dopo l’ultimo colpo, doveva buttarsi di testa dentro il timpano, sfondando la pelle del tamburo, restandoci dentro per circa dieci minuti. Una concezione fisica della musica, insomma. Ecco, Alberto e Luca Ferrari e Roberta Sammarelli fanno una cosa del genere: ti prendono e ti tuffano di testa dentro ai loro suoni. Solo che il loro endkadenz non è la chiusura, è solo l’inizio.