Per l’Italia non vedo un futuro, per gli italiani ne vedo uno brillante. Con questa frase di Indro Montanelli si apriva il video di “Maledetti italiani” che a fine novembre anticipava il ritorno di Colapesce, tre anni dopo dopo che “Un meraviglioso declino” lo aveva consacrato tra i nomi da seguire con più attenzione. Se quel singolo era la cosa più politica che Lorenzo Urciullo avesse scritto finora, quasi un manifesto di chi non si sente “un italiano vero”, il centro del nuovo disco è molto più autobiografico. Intitolato non a caso “Egomostro”, come il brano in cui ironizza su selfie e social network, potrebbe a prima vista confermare il target: si citano espressamente la Biennale di Venezia, l’oroscopo di Internazionale, conversazioni su Skype. Il tutto pervaso da un senso autocritico pungente non so se più britannico o siciliano che gli fa mettere in copertina una sua immagine stampata in 3D, il suo ego cristallizzato e rimosso da sè.

Ma il territorio sul quale Urciullo è un vero fuoriclasse è quello intimista. Quando descrive il corpo femminile con la precisione e la morbidezza di un pittore: Come ombre di stelle / Sono i nei della tua pelle canta in “Sottocoperta”, forse il miglior pezzo dell’album; quando racconta di una visita alla Biennale interessato soltanto a una ragazza (Pago l’ingresso / Per starti accanto); quando riprende la metafora amore/concerto di “Oasi” per ribaltarla in “Sold Out”. Sembra l’altra faccia di “Un meraviglioso declino”: spogliato di ogni rotondità  il suono è tagliente, ci sono più synth che chitarre, il caldo e la luce del sole d’estate che illuminava il disco di tre anni fa rimpiazzati da atmosfere notturne, invernali, scene girate in interni. La Sicilia che si respirava in “Satellite” ora è soltanto nei ricordi (Ventre di perla / Ti abbraccio e sento il mare). Al contempo la sicurezza nella produzione fa dieci passi in avanti e mantiene una commovente attenzione ai dettagli: gli inserti di fiati in “Reale”, la dinamica del rullante in “Sottocoperta”.

Musicalmente il salto è molto più grande di quel che sembra ad un primo ascolto. Riascoltato fianco a fianco il disco precedente sembra poco più di un demo e si sente tutto il frutto di un anno che Lorenzo ha detto di “aver passato più in studio che a casa”. Se “Maledetti italiani” rimanda ancora a quel pop italiano d’antan che su queste pagine era stato accostato agli Audio 2, questo disco è la conferma che Colapesce merita almeno di poter giocare la partita con il mostro sacro di Battisti. Con lui condivide non solo il talento melodico che lo fa essere orecchiabile senza mai ripetersi (difficile trovare qualcosa che suoni ripetitivo in questi 45 minuti) ma anche nel gusto criptico e sperimentale che rimanda esplicitamante al “periodo bianco” del sodalizio con Pasquale Panella (nella title track “Egomostro” o in “Mai vista”). Ci sono però anche ascolti molto più recenti che devono aver influenzato queste registrazioni: dall’attacco di “Diluvio” con un synth prepotente che sembra uscito dai Royal Blood, al finale tra Wurlitzer e armonie vocali di “Passami il pane” che potrebbe essere la risposta italiana a How to Dress Well.

C’è qualche episodio meno riuscito: la intro/outro “Entra pure”/”Vai pure”, gli accenti world di “Copperfield” dove anche le metafore sono più banali che altrove, lo stesso singolo “Maledetti italiani” suona debole e un po’ isolato nel contesto dell’album. Ma questo solo a confermare che si tratta di un ottimo disco e che Colapesce, lungi dal non essere un italiano vero, è proprio l’italiano di cui abbiamo più bisogno: quello che senza rinnegare il passato prova a costruire il futuro.