“Unknown Rooms: A Collection Of Acoustic Songs” sembra esaudire il desiderio che l’etimologia di “Apokalypsis” esprimeva: ha l’idea del disvelamento ed è ““ letteralmente ““ alzare il velo. “Unknown Rooms” è qui, nel momento in cui la maschera cade e emerge un’espressione, nel secondo in cui la sacerdotessa delle nebbie diventa solo una ragazza dall’ossatura fragile avvolta in un cappotto fuori misura.
I want flatlands, I want simplicity, I need your arms wrapped hard around me: l’apertura di “Unknown Rooms” è non una dichiarazione di intenti epici e eroici, è solo un’ammissione tanto umana quanto inaspettata; come se Chelsea dicesse: guardatemi, guardatemi davvero ““ oltre questa armatura, il muro di nebbia e note che ascoltate.

Cade un velo, e siamo meno metaforici che mai: abituata a cantare con volto coperto, Chelsea Wolfe ha adesso il coraggio di alzare lo sguardo e guardare il suo pubblico, e soprattutto di farsi guardare.
Musicalmente il discorso è simile e dichiarato: l’idea di acoustic ha già  una sua dote di nudità , di semplicità  esibita, di mancanza di trucchetti e luoghi dove nascondersi. Anche il prossimo album (squadra che vince non si cambia) è stato annunciato come in linea con questo percorso che dagli strati eterei e vaporosi delle prime prove della Wolfe muove verso orizzonti più reali e ““ anche, ma non troppo ““ luminosi. Un medioevo caldo, un gotico che conosce la sorpresa del bel tempo e di una fotografia meno scontata del solito, anzi quasi imprevedibile, eppure riconoscibilissima. Se Zola Jesus (con cui Chelsea condivide la lettura di libri sbagliati in età  sbagliate, quando Dostoevskij non dovrebbe essere un classico per l’infanzia) era un bianco-bianco troppo luminoso, dove niente poteva crescere, Chelsea Wolfe è un nero più denso, dove brillano colori inattesi.

Oltre alla già  citata “Flatland”, gran parte delle tracce brilla dell’ora d’oro della sua produzione: canzoni calde (“Sunstorm”) e voci che provengono da un aldilà  vicino, appena dietro le nostre spalle, che parlano anche al plurale.
Nel nuovo album per un momento, per un momento solo crediamo di poterci aggrappare a qualcosa; crediamo di poter sapere chi è Chelsea Wolfe, ne conosciamo la fragile silhouette. Una sensazione che dura solo a tratti, bella e disorientante; rispetto a “Apokalypsis”, “Unknown rooms” è come percepire un corpo sotto gli abiti dipinti di un quadro e allungare la mano per sentirne la concretezza.

Con “I Died With You” (che mi riporta inesorabilmente a “Seal Jubilee” di Bat for Lashes) firma la sua nuova scomparsa ““ una filastrocca dalla voce di bambina, nera e spaventosa come una fiaba con cui saluta il suo Boyfriend (una delle migliori tracce) per poi svanire nelle acque, novella Virginia Woolf (“Virginia Woolf underwater”) ““ la consonanza dei cognomi è fatale ““ e non la vediamo più, ma chi se ne meraviglia?
Lei c’è stata, abbiamo visto il suo volto, colmare la distanza tra lei e noi è tutto quello che un disco del genere può donarci, ed è già  tanto.

Il nord della California, per come ce lo descrive Chelsea, è molte cose, ma niente di rassicurante. Lei non ci sta mandando affatto cartoline, e se lo fa sono piene di frasi sibilline, immagini incomprensibili di luoghi sconosciuti come scogliere col mare in rivolta, foreste in cui celebrare sabba.
Come una maga, converte la luce in foschia, l’esattezza delle voci in suoni lontani e stratificati: è quanto continua a fare Chelsea. Esattamente come fa un’altra artista, una fotografa, con un altro luogo paradigma di luce e chiarezza, la Grecia. “Aà«la Labbè”, celebra il fascino per un’altra Grecia, quella della classicità  apocalittica ““ non armonica, di antiche religioni misteriche, adatte a chi sopporta il vento freddo e il gelo dell’acqua di un fiume che ti infanga gli stivali, per la sola possibilità  della dischiusione di una verità . Un mondo in connessione con la Wolfe; due universi espressivi vicinissimi e meno banali di quanto si creda, in cui accade una stessa cosa: in “Aà«la Labbè” i soggetti della foto rivelano la loro natura umana, sono solo sorelle, bambine travestite da streghe e arrampicate su scogliere conosciute solo agli iniziati, sono i cugini con cui ci travestiamo per Halloween improvvisati fuori calendario; e così Chelsea Wolfe passa dalla inquieta figura dagli occhi bianchi di “Apocalypsis” alla ragazza sulla cover dell’album, che si copre gli occhi, sdraiata su un letto che potremmo riconoscere come familiare.
Non è un abbassamento di tono, non è una trasformazione: è uno spiraglio di umanità  che si apre, è come togliersi uno strato di vestiti e scoprire che si è mortali, umani ““ “Unknown rooms” ha il calore di un raggio inaspettato di sole, mentre si cammina sulla banchina di un porto sempre nebbioso.