Un uomo che indossa una divisa da reduce nordista con un cappello da cowboy, cammina lentamente nel fango trascinando una bara accompagnato solamente da una canzone meravigliosa in sottofondo che enfatizza la sua fatica, cantata da Rocky Roberts e composta da Luis Enriquez Bacalov. I titoli di testa sono rossi, in forte contrasto con i colori opachi e scuri della scena.

Inizia così “Django” film diretto da Sergio Corbucci e datato 1966. Si tratta di uno dei più famosi spaghetti western mai girati, che consacrò il suo protagonista Franco Nero ed è ricordato per la trama crudele, la violenza esagerata – per quei tempi – e un cinismo di fondo che resero Django un personaggio unico. Si trattano temi complessi come il razzismo, prostituzione con un realismo che rendo il film estremamente vero e i suoi personaggi sporchi come lo sarebbero nella polvere del vecchio west, lontani anni luce dai film di John Wayne e dai colori pastello dei loro abiti. Qui sembra quasi di sentire l’odore dei cavalli e degli stivali di cuoio consumati, la polvere da sparo e il sangue, tanto sangue. Una storia di vendetta, Django deve uccidere i colpevoli dell’assassinio di sua moglie, uccisa durante la sua assenza. Un uomo svuotato, senza nulla da perdere. E nella realtà  distorta di quel tempo e di quei film, Django avrà  una sua morale e dei principi, anche se sono lontani anni luce da quelli di un eroe perfetto. Sarà  in grado di affrontare più di quaranta uomini pronti a massacrarlo grazie alla mitragliatrice che tiene nascosta dentro la cassa da morto che si porta in giro. Sergio Corbucci osa, non ha paura di rischiare e di far discutere, di far trasparire la sua opinione, anche politica. Non ha timore di mostrare dolore e scene atroci, come un orecchio tagliato. Scena che sarà  ripresa da Tarantino ne “Le iene” quando Mr. Blonde torturerà  per diletto il poliziotto ostaggio. E il regista americano, che ama a tal punto Django da averci girato un film chiamando il suo protagonista allo stesso modo, non è l’unico estimatore della pellicola di Corbucci. Il regista giapponese Takashi Miike girò “Sukiyaki Western Django” in onore del protagonista del film di Corbucci ambientato nel sol levante. “Django” avrà  un solo seguito ufficiale ma quasi una decina di altri film riprenderanno il personaggio, da ricordare “Preparati la bara!” con Terence Hill nel ruolo di Django.

Il finale è epico, Django con le mani fracassate è in ginocchio dietro la croce che segnala la tomba della sua amata moglie, tiene la pistola come riesce e la punta verso i suoi nemici, tra cui l’uomo colpevole della morte della moglie. Lui è solo, loro sono in sei, cinque di loro indossano una maschera rossa. Viene deriso, quasi umiliato ma al momento opportuno, grazie alla sua abilità  di pistolero unita alla voglia di vendetta riuscirà  a far fuori tutto quel manipolo di uomini armati. Cosa c’è di strano? Sparerà  sette colpi e la pistola ne poteva contenere solo sei. Forse solo un errore sonoro oppure, come mi piace pensare, il colpo in più è simbolico, sparato dalla moglie sepolta nella tomba dove Django cercava di trovare riparo e conforto. Un piccolo colpo di genio che ha aggiunto romanticismo e valore simboli ad un film unico. Il nome di questa rubrica è proprio in onore al film Django, l’extra shot, il colpo in più che non esiste, eppure c’è.

EXTRA SHOT: Il talento di un regista raccontato attraverso un film che lo rappresenta e attraverso quei piccoli colpi di genio che lo rendono un cult.