Lo ammetto, non è stato facile scrivere queste righe. Ho avuto in testa le parole e i pensieri che ruotano attorno a questa recensione per alcune settimane, dal momento esatto in cui ho premuto play per la prima volta. Ho masticato e rimasticato più volte le parole che troverete da qui in poi, perchè parlare dei Pixies non  soltanto è  compito arduo da un punto di vista squisitamente critico. E’ soprattutto un’impresa nell’atto di destreggiarsi tra un mare di giudizi che una band di tale caratura naturalmente attira su di sè.

Non ha fatto eccezione l’uscita di “Head Carrier”, questo nuovo capitolo discografico per quelli che il sottoscritto – ma non solo – considera dei giganti, dei mostri sacri della scena alternativa. Pixies non si discutono, mi verrebbe da dire, anche al netto di Kim Deal, ora definitivamente (?) un capitolo chiuso per la formazione di Boston. Il  viaggio di questo album  è un viaggio lungo più di due decenni. Tanta è stata l’attesa per vedere sugli scaffali un nuovo lavoro firmato Black Francis e soci, dopo l’ultimo “Trompe Le Monde” (1991). Se non si considerano, naturalmente, compilation varie e il più recente e discusso “Indie Cindy” (2014), collezione di tre EP.

Di pareri ne ho letti parecchi, con attacchi  talvolta di cattivo gusto o una velenosa (e piuttosto spiccia) critica, a proposito di “Head Carrier”. Si, perchè sembra essere un vezzo attendere al varco la nuova release di una band che ha fatto la storia e smontarla, pezzo per pezzo. Esercizio, questo, a quanto pare ancor più divertente se e quando ci si trova al cospetto di un nome pesante nella storia dell’ultimo trentennio, nonchè gruppo in grado di squarciare le correnti e generare una, due, forse dieci o chissà  quante nuove correnti dipanatesi in seguito.

Mi chiedo: cosa vi aspettavate? Vi immaginavate Black Francis (oggi 51enne) ingoiare un elisir di giovinezza, scrivere pezzi acidi e vocalmente violenti,  in preda a una furia musicale tra il noise e la sperimentazione che magari nemmeno  avreste compreso? Oppure è sufficiente l’addio di una colonna portante quale Kim, per altro più che degnamente rimpiazzata dall’elegante Paz Lenchantin, a far  accostare a qualcuno le sonorità  di questo  disco a possibili colonne sonore per stucchevoli serie tv anni ’90? No, perchè, già  che ci siamo sarebbe allora il caso di puntualizzare un paio di cose.

“Head Carrier” è un disco indipendente, che scivola via in poco più di mezz’ora e 12 tracce, minuziosamente intagliate da chi sa fare il proprio mestiere di musicista e compositore e non deve certo ricevere lezioni di stile o di sorta. La title-track, mostra in tutta la sua bellezza l’evoluzione alla chitarra elettrica di Joey Santiago, mentre “Classic Masher” è tra i pezzi più orecchiabili e radiofonici. Poi ci sono “Baal’s Back”, l’omaggio più sentito alla dimensione indiavolata di Black Francis al microfono, e ancora “Talent”, “The Tenement Song” e “Bel Esprit” a fare da contrappunto.

“All I Think About Now” mi provoca una scossa al cuore. L’attacco sembra catapultarmi  alla celestiale melodia di “Where Is My Mind”, la sorpresa è  Paz, la quale si prende tutta la scena e recita un sentito tributo a Kim Deal, in uno dei pezzi più densi del disco. “Head Carrier” vive di questi momenti di assoluta pienezza di spirito. Si muove ancora tra la nota “Um Chagga Lagga” (suonata live nel recente passato) nella sua spigolosa veste punk, o il guitar rock (meno incisivo, stavolta) di “Plaster Of Paris”.

“Head Carrier” è un disco che in cuor mio attendevo con ansia, con quella fiducia incondizionata concessa ai Pixies che ho conosciuto e amato nel tempo: senza fronzoli, senza sbavature, con alcuni pezzi di una certa entità , altri dei quali magari si perderà  memoria, ma che non mutano la bontà  del giudizio finale. Questi ragazzi (cresciuti), con il nuovo produttore Tom Dalgety (già  al lavoro con Royal Blood e Band Of Skulls, tra gli altri), hanno esplorato un nuovo universo con un chiaro tributo a quello che fu l’inizio di una vera e propria epoca, quella di “Doolittle” e “Surfer Rosa”, per intenderci. Lo hanno fatto senza il volto femminile che ha contraddistinto il loro nome e l’immagine di un’intera era musicale, ma scrivendo musica di qualità ,  con  coraggio e onestà .

Mettetevela via: il tempo passa, le correnti trasformano la musica e la creatività  di questo o quell’artista. Ammesso e non concesso sia lecito coltivare determinate aspettative, smettiamola con quel  ridicolo gioco della testarda ricerca del catastrofismo. Perchè  nel 2016 – a parere di chi scrive – è abbastanza improbabile immaginarsi un disco  diverso da questo o una rivoluzione da parte di chi la rivoluzione l’ha già  fatta. Magari non prenderà  al primo ascolto, perchè  entrerà  pian piano nella mente di chi avrà  la pazienza di lasciarsi prendere per mano, ma “Head Carrier” è un LP  completo, poggia sulle fondamenta di spunti interessante. E’ portavoce di un indie alternative rock come pochi altri sanno fare. Si chiamano  Pixies, non certo per caso.