Rispuntano i fratelli parassiti di Glasgow ed è un “piccolo miracolo” secondo il minore dei due o una “cosa pazzesca” stando alle dichiarazioni del loro sempre esaltato produttore Alan McGee. C’è da augurarselo per due motivi fondamentali: perchè il loro ultimo disco risale ad una generazione fa e perchè un segno nella storia dopo il 1985, anno del loro esordio, non l’hanno più impresso. Quale sarà  la nuova mossa?

In principio erano Velvet Underground e Joy Division che giocavano al rimpallo, usando partiture zeppe di muri sonori così alti e spessi da diventare labirinti, gli stessi tra i quali si sono persi. Ma nei casi in cui occorre un saggio di melodia, beh allora diventano intoccabili e vi filtrano perfettamente le loro voci.
Poi i tamburi sono diventati più fluidi ma non le chitarre dei Reid le cui corde sono ancora lamette elettrifiche. Invecchiando hanno ridotto i volumi delle loro chiome ma non hanno smesso di “guardarsi le scarpe” mentre impastano musiche non più a transistor e dai battiti meno accelerati. Sarà  il vigore in fase calante. Paradossalmente non hanno mai voluto piegare la testa essendo degli antesignani, anche a costo di restare con l’acqua alla gola. è il dazio da pagare per il loro primo lavoro completo nel nuovo millennio. Non sono abituati a confrontarsi con nuove band dai vecchi suoni. Non sono delle vergini e non posseggono tante carte lanciare sul tavolo.

“Always Sad” è la prima pratica pubblica per il rilancio. I tamburi in partenza sono ben ovattati e la chitarra secca e stridente. A seguire una spessa base rock’n’roll tra B.R.M.C. e Strokes a ritmo regolare. Curioso che ci sia del “nuovo”, che si ritrovino accostati a formazioni contemporanee che nel cercare identità  proprie devono essersi chiesti chi diavolo sono i Chain. “Amputation” è una gradevolissima cavalcata rock e un’ottima presentazione in ingresso. La voce è piuttosto fluida e sgraziata, adatta per intrufolarsi tra le pieghe dei riverberi che da sempre contraddistingue il DNA dei fratelli Reid. Quella voce prorompente del profondo nord che tanto ha pesato nella storia dell’indie britannico e che fa presa più chiaramente in “Black and Blues” o in “War On Peace”. è anzi il cardine di Damage & Joy, lo strumento migliore nelle mani della band per spiegare un passato soddisfacente e insoddisfatto.
La sensazione è quella di un bentornato a dei vecchi amici che non vedi da tempo e che tutto sommato trovi in forma. Inutile dire che la produzione è scarna, in linea con tutto ciò che è stato fatto in precedenza ma è abbastanza e va bene così. Potremmo farci promettere più coinvolgimento al prossimo appuntamento.

Credit Foto: Steve Gullick